CONTESSA: E io sono buona? Tu lo sei? Lui lo è? Il mio confessore negherebbe. E il tuo, che cosa dice di te? O forse ha paura? E il tuo familiare è migliore di te?
FAMILIARE: Non vorrei esserlo.
CONTESSA: No, non sono sfacciata... e non sono al sicuro qui, lo so. È stata la paura a portarmi in queste funeree stanze. Ti hanno riferito che l'uomo nudo mi ha colpita. È stato preso?
INQUISITORE: Non l'ho ancora visto.
CONTESSA: Meno di un turno di guardia fa, alcuni soldati mi hanno trovata gemente in giardino, mentre la mia ancella cercava di confortarmi. Dato che avevo paura di restare all'aperto nell'oscurità, mi hanno condotta nel mio appartamento attraversando la galleria detta Strada dell'Aria. La conosci?
INQUISITORE: La conosco bene.
CONTESSA: In tal caso saprai che è completamente ricoperta da finestre in modo che tutte le stanze e i corridoi che vi si affacciano possano usufruirne. Passando, ho scorto un uomo alto e agile, con le spalle larghe e la vita sottile.
INQUISITORE: Molti uomini rispondono alla tua descrizione.
CONTESSA. Lo credevo anch'io. Ma poco tempo dopo l'ho rivisto affacciato a un'altra finestra... e a un'altra ancora. Allora ho pregato i soldati che mi accompagnavano di sparare. Mi hanno presa per pazza e non hanno obbedito; e la squadra che hanno inviato in cerca di quell'uomo è tornata a mani vuote. Eppure mi fissava dalle finestre e pareva ondeggiare.
INQUISITORE: E tu sei convinta che quell'uomo fosse lo stesso che ti aveva colpita?
CONTESSA: Peggio. Io ho paura che non fosse lui, nonostante la somiglianza. Per di più, sono certa che mi avrebbe trattato con gentilezza se avessi rispettato la sua follia. No. In questa strana notte nella quale noi, steli uccisi dall'inverno, steli del vecchio raccolto dell'uomo, siamo così mischiati con il seme dell'anno che verrà, temo che egli rappresenti qualche realtà a noi sconosciuta.
INQUISITORE: È probabile. Ma non lo troverai qui, e non troverai nemmeno l'uomo che ti ha colpita. (Al suo FAMILIARE.) Conduci la strega, fratello.
FAMILIARE: Ogni donna è una strega... per quanto alcune siano peggiori delle altre.
Esce di scena e ritorna seguito da MESCHIANE, incatenata.
INQUISITORE: Sei accusata di aver incantato sette soldati del nostro sovrano, l'Autarca, affinché venissero meno al giuramento e usassero le loro armi contro i compagni e gli ufficiali. (Si leva in piedi e accende una grossa candela posta sul lato della scrivania.) Adesso ti ordino solennemente di riconoscere il tuo peccato e, se lo ha commesso, di rivelare quale potenza ti ha aiutato a compierlo e i nomi delle persone che ti hanno insegnato a evocare la suddetta potenza.
MESCHIANE: I soldati hanno capito che non era mia intenzione fare loro del male e hanno temuto per me. Io...
FAMILIARE: Silenzio!
INQUISITORE: Non hanno alcuna importanza le proteste dell'accusata quando non avvengono sotto tortura. Il mio familiare ti preparerà.
Il FAMILIARE prende MESCHIANE e la lega a uno degli strumenti.
CONTESSA: Dal momento che al mondo resta così poco tempo, non lo sprecherò qui. Sei amica dell'uomo nudo che era in giardino? Andrò a cercarlo e gli riferirò che cosa ti sta succedendo.
MESCHIANE: Oh, sì. Mi auguro che arrivi prima che sia troppo tardi.
CONTESSA: E io mi auguro che accetti me al posto tuo. Sicuramente le nostre speranze sono prive di fondamento, e ben presto saremo accomunate dalla disperazione.
La CONTESSA esce.
INQUISITORE: Andrò anch'io a parlare con coloro che l'hanno aiutata. Prepara gli strumenti: sarò di ritorno fra poco.
FAMILIARE: C'è un'altra persona, inquisitore. È accusata delle stesse colpe, ma credo che abbia meno poteri.
INQUISITORE: Perché non sono stato informato? Avrei potuto interrogarle insieme. Conducila qui.
Il FAMILIARE esce e riappare accompagnato da JAHI. L'INQUISITORE passa in rassegna le carte sulla scrivania.
INQUISITORE: Sei accusata di aver incantato sette soldati del nostro sovrano, l'Autarca, affinché venissero meno al giuramento e usassero le loro armi contro i compagni e gli ufficiali. Adesso ti ordino solennemente di riconoscere il tuo peccato e, se lo hai commesso, di rivelare quale potenza ti ha aiutato a compierlo e i nomi delle persone che ti hanno insegnato a evocare la suddetta potenza.
JAHI: (Con orgoglio.) Ho compiuto il peccato di cui mi hai accusato e altri ancora che non sai. La potenza non ardisco nominarla per evitare che questa tana di ratti venga distrutta. Chi mi ha messo in contatto con essa? Chi insegna a una figlia come chiamare il padre?
FAMILIARE: La madre?
INQUISITORE: Non so. Preparala. Sarò di ritorno fra breve.
L'INQUISITORE esce.
MESCHIANE: Si sono battuti anche per te? Quanti morti, che tristezza!
FAMILIARE: (Lega JAHI a uno strumento dalla parte opposta della scrivania.) Lui ha letto lo stesso foglio. Gli farò notare lo sbaglio, con diplomazia, al suo ritorno.
JAHI: Tu hai incantato i soldati? Allora incanta anche questo stupido e libera entrambe.
MESCHIANE: Non so il canto del potere, e ne ho incantati solamente sette su cinquanta.
NOD, legato, appare sospinto dal PRIMO SOLDATO con una picca.
FAMILIARE: E questo chi è?
PRIMO SOLDATO: Ah, non hai mai visto un prigioniero come lui. Ha ammazzato cento uomini come se si trattasse di cagnolini. Hai dei ceppi abbastanza grossi?
FAMILIARE: Dovrò unirne più di uno, ma troverò il modo per incatenarlo.
NOD: Io non sono un uomo, sono di meno e di più... perché sono nato dall'argilla, dalla Madre Gea, che tiene le belve come animali domestici. Se tu hai del potere sugli uomini, mi devi liberare.
JAHI: Nemmeno noi siamo uomini. Lasciaci andare!
PRIMO SOLDATO: (Ridendo.) È ovvio che non lo siete. Non ho avuto il minimo dubbio al riguardo.
MESCHIANE: Lei non è una donna. Non lasciarti ingannare.
FAMILIARE: (Finendo di mettere i ceppi a NOD.) Non mi ingannerà. Credimi, il tempo degli imbrogli è terminato.
PRIMO SOLDATO: Ti divertirai molto, vero, dopo che io me ne sarò andato?
Allunga le mani verso JAHI, che soffia come un gatto.
PRIMO SOLDATO: Perché non ti comporti da amico e non ti giri un momento?
FAMILIARE: (Pronto a torturare MESCHIANE.) Se facessi come dici, ben presto mi ritroverei straziato sulla mia stessa ruota. Ma se aspetterai qui il ritorno del mio padrone, l'inquisitore, forse potrai giacere con quella donna, come ti piacerebbe fare.
Il PRIMO SOLDATO ha un attimo di esitazione, quindi comprende il senso della risposta e se ne va in fretta.
NOD: Quella donna sarà la madre di mio genero. Non farle del male. (Cerca di spezzare le catene.)
JAHI: (Soffocando uno sbadiglio.) Sono rimasta sveglia per l'intera notte e, per quanto lo spirito sia pronto come al solito, la carne anela il riposo. Non puoi fare in fretta con lei e poi passare a me?
FAMILIARE: (Senza guardarla.) Qui non esiste il riposo. JAHI: Veramente? Bene, non è l'ambiente casalingo che mi ero immaginata.
JAHI sbadiglia nuovamente e, quando alza una mano per coprirsi la bocca, la catena cade.
MESCHIANE: Devi trattenerla... non capisci? Non è fatta di argilla, perciò il ferro non ha alcun potere su di lei.
FAMILIARE: (Continuando a fissare MESCHIANE e a torturarla.) È legata saldamente, non aver paura.
MESCHIANE: Gigante! Non sei capace di liberarti? C'è in gioco il destino del mondo!
NOD tende le catene, ma non riesce a spezzarle.
JAHI: (Liberandosi dai ceppi.) Sì! Sono proprio io, perché nel mondo reale sono molto più grande di tutti voi. (Gira intorno alla scrivania e si sporge sopra la spalla del FAMILIARE.) È davvero interessante! Primitivo ma interessante!
Il FAMILIARE si volta e la fissa a bocca aperta; JAHI scappa ridendo. Lui le corre dietro goffamente e dopo un istante è di ritorno, frastornato.
FAMILIARE: (Ansimando.) È fuggita.
NOD: È vero, è libera.
MESCHIANE: Libera di correre dietro a Meschia e di rovinare tutto, come ha già fatto una volta.
FAMILIARE: Tu non puoi capire che cosa significhi questo. Presto il mio padrone sarà di ritorno e io sarò un uomo morto.
NOD: Il mondo è morto. Te l'ha detto anche lei.
MESCHIANE: Torturatore... ti resta ancora una possibilità. Ascoltami. Devi lasciar andare anche il gigante.
FAMILIARE: E lui mi ucciderà e ti libererà. Ci devo pensare. Per lo meno sarà una morte veloce.
MESCHIANE: Il gigante detesta Jahi, e nonostante non sia molto sveglio conosce i suoi trucchi, e ha una forza smisurata. E, soprattutto, io ti posso rivelare un giuramento a cui egli non verrà mai meno. Dagli la chiave dei ceppi e poi resta vicino a me, con la spada puntata contro il mio collo. Fagli giurare di trovare Jahi, di portarla qui e di legarsi nuovamente.
Il FAMILIARE esita.
MESCHIANE: Non hai niente da perdere. Il tuo padrone non sa nemmeno che lui è qui. Ma se Jahi non sarà incatenata al suo posto quando tornerà...
FAMILIARE: Lo farò. (Prende una chiave dal mazzo che tiene appeso alla cintura.)
NOD. Giuro, nella speranza di potermi unire in matrimonio con la figlia dell'Uomo, così che noi giganti possiamo definirci Figli del Padre, che catturerò per te il succubo e lo ricondurrò qui, e lo tratterrò in modo che non riesca più a scappare, e mi legherò nuovamente come sono legato adesso.
FAMILIARE: È questo il giuramento?
MESCHIANE: Sì.
Il FAMILIARE lancia la chiave a NOD, quindi sguaina la spada e si tiene pronto a colpire MESCHIANE.
FAMILIARE: Riuscirà a trovarla?
MESCHIANE: Deve riuscirci!
NOD: (Liberandosi.) La catturerò. Il suo corpo si sta indebolendo, come ha detto lei stessa. Potrà portarlo lontano, ma non sarà mai abbastanza. (Esce.)
FAMILIARE: Adesso continuerò con te. Mi auguro che tu capisca.
Il FAMILIARE tortura MESCHIANE facendola urlare.
FAMILIARE (Sottovoce.) Com'è bella! Mi piacerebbe... averla incontrata in una occasione diversa.
Buio. Si distinguono i passi di JAHI, in corsa. Dopo un istante, una luce tenue mostra Nod che procede speditamente lungo i corridoi della Casa Assoluta. Sugli schermi scorrono immagini di urne, quadri e arredi che mostrano la sua avanzata. JAHI compare in mezzo agli oggetti e NOD esce sulla destra, inseguendola. Jahi entra da sinistra, affiancata dal SECONDO DEMONE.
JAHI: Dove può essere andato? i giardini sono tutti bruciati. Tu non possiedi carne, a parte l'apparenza... sei in grado di trasformarti in un gufo e cercarlo per me?
SECONDO DEMONE: (Deridendola.) Chi-i-i?
JAHI: Meschia! Aspetta che il Padre venga a sapere come mi hai trattata e come hai tradito tutto il nostro impegno!
SECONDO DEMONE: Glielo dirai tu? Sei stata tu a lasciare Meschia perché ti attirava quella donna. Cosa gli dirai: «La donna mi ha tentata»? Tanto tempo fa eravamo riusciti a scamparla, e adesso nessuno se ne ricorda più, a parte noi due, e ora hai rovinato tutto trasformando la menzogna in verità.
JAHI: (Avventandosi contro di lui.) Piccolo immondo piagnucoloso! Grattafinestre!
SECONDO DEMONE: (Facendo un balzo indietro.) E ora sei in esilio nella terra di Nod, a est del Paradiso.
Fuori scena si sentono i passi di NOD. JAHI si nasconde dietro una clessidra, il SECONDO DEMONE invece afferra una picca e si atteggia a soldato. Entra NOD.
NOD: Da quanto tempo sei qui?
SECONDO DEMONE: (Salutandolo.) Dal tempo che desideri tu, sieur.
NOD: Novità?
SECONDO DEMONE: Tutte quelle che vuoi, sieur. Un gigante alto quanto un campanile ha ammazzato tutte le guardie del trono e l'Autarca è sparito. Abbiamo perlustrato i giardini così a fondo che se avessimo portato letame invece delle lance ora le margherite sarebbero grosse come ombrelli. Le vesti delle anitre sono cadute e le speranze aumentano... e anche le rape. Domani sarà una bella giornata, calda e luminosa... (Guarda intensamente la clessidra.) E una donna vestita di niente è fuggita lungo i corridoi.
NOD: Cos'è quell'ordigno?
SECONDO DEMONE: Un orologio ad acqua, sieur. Se sai l'ora, guardandola riesci a capire quanta acqua è corsa via.
NOD: (Studiando la clessidra.) Nella mia terra non esiste niente del genere. Quei pupazzi vengono mossi dall'acqua?
SECONDO DEMONE: Il più grande no, sieur.
JAHI scappa fuori scena, rincorsa da NOD: prima che lui sia sparito, gli si tuffa in mezzo alle gambe e rientra. NOD va avanti, permettendole di infilarsi in una cassapanca. Nel frattempo, il SECONDO DEMONE scompare.
NOD: (Di ritorno.) Oh, fermati! (Corre dalla parte opposta del palcoscenico e torna indietro.) È colpa mia! Colpa mia! Là, nel giardino.... mi è passata accanto una volta. Avrei dovuto allungare la mano e schiacciarla come un gatto... un verme... un topo... un serpente. (Al pubblico.) Non ridete di me! Vi potrei uccidere tutti! L'intera vostra razza avvelenata! Oh, poter disseminare le vostra osse bianche nelle valli! Ma sono finito... finito! E Meschiane, che si fidava di me, è spacciata!
NOD colpisce la clessidra e i piatti d'ottone e l'acqua volano attraverso il palcoscenico.
NOD: A cosa mi serve il dono della parola se non a far sì che io maledica me stesso? Buona madre di tutte le bestie, levamelo. Vorrei tornare a essere quello che ero e gridare senza parole fra le colline. La ragione stessa dimostra che il raziocinio non può apportare che dolore... come sarebbe più conveniente dimenticare ed essere nuovamente felici!
NOD siede sulla cassapanca nella quale si è nascosta JAHI e mette il volto fra le mani. Mentre la luce si attenua, la cassapanca inizio a rompersi sotto il suo peso.
Quando torna la luce, la scena si svolge nuovamente nella camera dell'INQUISITORE. Il FAMILIARE sta facendo girare la ruota alla quale è legata MESCHIANE, che grida.
FAMILIARE: Ti senti meglio così, vero? Te lo avevo detto. Inoltre, informa i vicini che qui dentro non stiamo dormendo. Tu non ci crederai, ma quest'ala è tutta colma di stanze vuote e abbandonate. Io e il mio padrone svolgiamo ancora il nostro mestiere. Continuiamo a farlo ed è per questo che il regno va avanti. E noi vogliamo che loro lo sappiano.
Sopraggiunge l'AUTARCA. Le sue vesti sono strappate e sporche di sangue.
AUTARCA: Che posto è questo? (Si siede a terra con la testa fra le mani, in una posa che ricorda quella di NOD.)
FAMILIARE: Che posto è? È la Camera della Misericordia, asino. Come puoi venire qui senza sapere dove ti trovi?
AUTARCA: Mi è stata data la caccia nella mia stessa casa, questa notte, tanto che mi potrei trovare in qualsiasi luogo. Portami del vino... o dell'acqua, se non avete altro. E sbarra la porta.
FAMILIARE: Qui teniamo del borgogna, ma non del vino. E non posso sbarrare la porta, perché sto aspettando il ritorno del mio padrone.
AUTARCA: (Con più autorità.) Fai come ti ho detto.
FAMILIARE: (A bassa voce.) Sei ubriaco, amico mio. Vattene.
AUTARCA: Io sono... ma che cosa importa? La fine è imminente. Io sono un uomo, non migliore e non peggiore di te.
In distanza si distingue il passo pesante di NOD.
FAMILIARE: Ha fallito... lo sento!
MESCHIANE: Ha conseguito il suo scopo! Non avrebbe fatto ritorno tanto presto a mani vuote. Forse la salvezza del mondo è ancora possibile!
AUTARCA: Cosa vorresti dire?
Compare NOD. La follia che ha invocato si è impossessata di lui, che si sta trascinando dietro JAHI. Il FAMILIARE accorre con i ceppi.
MESCHIANE: Qualcuno deve tenerla sotto controllo o fuggirà un'altra volta.
Il FAMILIARE circonda NOD di catene e chiude i lucchetti, quindi gli incatena un braccio attraverso il corpo in maniera che JAHI sia bloccata. NOD stringe più forte.
FAMILIARE: La sta uccìdendo! Lasciala, grande idiota!
Il FAMILIARE prende la sbarra che usava per far girare la ruota e colpisce NOD. NOD ruggisce, cerca di afferrarlo e lascia cadere a terra JAHI, svenuta. Il FAMILIARE la tira per il piede e la trascina dove è seduto l'AUTARCA.
FAMILIARE: Ecco, tu sei la persona giusta.
Solleva l'AUTARCA e lo imprigiona velocemente, così che una mano resti stretta intorno al polso di JAHI, quindi torna a torturare MESCHIANE. Alle sue spalle, senza che lui se ne accorga, NOD si sta liberando dalle catene.
XXV
L'ATTACCO AGLI IERODULI
Nonostante ci trovassimo all'aperto, dove generalmente i rumori si disperdono nell'infinità del cielo, udii lo sferragliare prodotto da Baldanders mentre fingeva di lottare con le catene. Il pubblico commentava, e riuscivo a sentirlo... parlava del dramma, e vi trovava dei significati che non solo io non ero riuscito a cogliere, ma nemmeno il dottor Talos, credo, aveva immaginato. Ancora, la gente parlava di un caso legale che un tale con l'accento strascicato sosteneva sarebbe stato giudicato in modo errato dall'Autarca. Mentre ero intento a girare l'argano della ruota producendo un gran fracasso, mi azzardai a gettare un'occhiata di traverso su coloro che assistevano al nostro spettacolo.
Non erano stati occupati più di dieci sedili, ma ai lati della platea e dietro si distinguevano maestose figure. Vidi delle donne con vestiti di corte simili a quelli che avevo notato nella Casa Azzurra, vestiti scollatissimi e con le gonne ampie, i più con lo spacco o con dei pannelli di pizzo. I capelli erano acconciati con semplicità ma ornati da fiori, gemme o larve luminescenti.
La maggior parte degli spettatori parevano essere uomini e altri stavano ancora arrivando. Molti erano alti come Vodalus, o ancora di più. Si avvolgevano nei mantelli come se la tiepida aria primaverile fosse troppo fredda per loro. I loro volti erano nascosti dai petasi dalle tese ampie e dalle cupole piatte.
Le catene di Baldanders si infransero con uno schianto e Dorcas lanciò un urlo per farmi capire che si era liberato. Mi volsi verso di lui, quindi arretrai levando dal supporto la fiaccola più vicina per tenerlo sotto controllo. La fiaccola si attenuò quando l'olio contenuto in essa rischiò di annegare la fiamma, poi si riprese crepitando allorché lo zolfo e i sali minerali che il dottor Talos aveva messo intorno all'orlo presero fuoco.
Il gigante si fingeva pazzo, come richiedeva il copione. I capelli ruvidi gli coprivano gli occhi, che comunque ardevano talmente da riuscire a luccicare dietro la velatura. La bocca era semichiusa, perdeva bava e mostrava i denti ingialliti. Le braccia, lunghe il doppio delle mie, si allungarono verso di me.
Devo riconoscere che ero spaventato e che rimpiangevo di non avere fra le mani Terminus est invece della fiaccola di ferro, soprattutto a causa di quella che posso solo chiamare l'espressione che traspariva sotto l'inespressività della sua faccia. Era come l'acqua nera che talvolta si riesce a scorgere sotto il ghiaccio quando il fiume gela. Baldanders godeva infinitamente di quel ruolo e quando mi voltai verso di lui, per la prima volta compresi che non stava affatto fingendo la pazzia, piuttosto fingeva la razionalità e l'umiltà nella vita di tutti i giorni. Mi domandai fino a che punto avesse influenzato la stesura del dramma, anche se probabilmente la verità era che il dottor Talos conosceva il suo paziente meglio di me.
Logicamente, non si dovevano impaurire i cortigiani dell'Autarca come avevamo fatto con i campagnoli. Baldanders mi avrebbe strappato di mano la fiaccola e avrebbe finto di rompermi la schiena, poi la scena sarebbe finita. Ma non accadde. Non so se il gigante fosse pazzo come richiedeva il suo ruolo o se si fosse veramente infuriato contro il pubblico sempre più numeroso. Forse successero entrambe le cose.
Qualsiasi fosse la verità, mi tolse la fiaccola e si voltò verso gli spettatori, agitandola finché l'olio infiammato gli volò intorno come una pioggia di fuoco. La spada che avevo usato per minacciare il collo di Dorcas pochi istanti prima era ai miei piedi; istintivamente mi chinai per prenderla. Quando mi raddrizzai, Baldanders era sceso in mezzo alla folla. La fiaccola si era spenta e lui la faceva roteare come una mazza.
Qualcuno gli sparò un colpo di pistola. Il suo costume prese fuoco, ma credo che il corpo rimase illeso. Diversi esultanti avevano sfoderato le spade e qualcuno, non riuscii a vedere chi fosse, sguainò l'arma più rara di tutte, un sogno. Si mosse come fumo tirio, ma molto più in fretta, e in un istante avviluppò Baldanders. Parve che fosse stato imprigionato da tutto quello che apparteneva al passato e da molte cose che non erano mai esistite; dal suo fianco apparve una donna con i capelli grigi, una barca da pesca gli fluttuò sopra il capo e un vento freddo colpì le fiamme che lo circondavano.
Eppure queste visioni, che pare lascino i soldati frastornati e impotenti, simili a pesi inutili, non sembravano sortire alcun effetto sul gigante. Baldanders continuò la sua avanzata, facendosi largo fra la gente con la fiaccola.
Poi, nell'istante stesso in cui guardai dopo aver ritrovato l'autocontrollo necessario per scappare lontano da quella folle rissa, notai diverse figure che gettavano via il mantello e, così mi parve, anche il volto. Sotto quelle facce, che mi apparivano incorporee come le notule, colsi delle mostruosità inimmaginabili: una bocca circolare contornata da denti simili ad aghi; occhi che erano in realtà mille occhi insieme, raggruppati come le scaglie delle pigne; zanne che facevano venire in mente delle tenaglie. Quelle immagini sono rimaste impresse nella mia memoria come tutto il resto e ho potuto contemplarle spesso nelle notti insonni. E mi rallegro, quando finalmente me ne distolgo e volgo lo sguardo verso le stelle e le nubi intrise di chiaro di luna, di avere visto solo quelle più vicine alle luci della nostra ribalta.
Ho già detto che fuggii. Ma quel breve istante di esitazione nel quale afferrai Terminus est e mi attardai a guardare il folle attacco di Baldanders rischiò di costarmi molto caro: quando mi volsi a cercare Dorcas, era scomparsa.
Fuggii, non tanto per allontanarmi dalla follia del gigante o dai cacogeni che si trovavano in mezzo al pubblico o dai pretoriani dell'Autarca, ma per ritrovare Dorcas. La chiamai e la cercai, ma non vidi altro che boschetti, fontane e pozzi; alla fine, senza fiato e con le gambe stanche, rallentai il passo.
Mi è impossibile spiegare l'amarezza che mi invase allora. Aver ritrovato Dorcas e averla persa un'altra volta, così presto, mi pareva insopportabile. Le donne pensano, o per lo meno fingono di crederlo, che la nostra tenerezza per loro nasca esclusivamente dal desiderio; che le amiamo quando è un po' di tempo che non le possediamo e che non ce ne interessiamo quando siamo soddisfatti o, per maggior precisione, esausti. Non è vero. Spinti dal desiderio tendiamo a simulare una grande tenerezza, per poter soddisfare il desiderio stesso; ma in nessun'altra occasione trattiamo le donne con analoga brutalità e siamo tanto privi di altre emozioni. Mentre vagavo per i giardini bui, non desideravo Dorcas fisicamente (anche se non la possedevo da quando avevamo dormito nella fortezza dei dimarchi, non lontano dai Campi Sanguinari): mi ero sfogato con Jolenta sulla barca. Ma se fossi riuscito a ritrovarla, l'avrei soffocata di baci; e mi accorsi di provare anche un certo affetto persino per Jolenta, che avevo sempre giudicato abbastanza antipatica.
Non trovai nessuna delle due e non vidi soldati in corsa e nemmeno i cortigiani festanti che eravamo venuti a divertire. Il tiaso, era chiaro, era stato limitato a una parte del giardino dalla quale ero ormai distante. Ancor oggi non conosco bene i confini della Casa Assoluta. Sono state redatte delle mappe, ma sono incomplete e contraddittorie. Non esistono invece mappe della Seconda Casa e lo stesso Padre Inire mi ha confessato di aver dimenticato parte dei suoi misteri. Girando per i suoi angusti corridoi, non ho mai incontrato un lupo bianco; ho trovato invece delle scale che conducono a cupole sotto il fiume e botole che si aprono in mezzo a foreste apparentemente vergini. (Alcune di queste botole sono segnate, sul terreno, da stele di marmo in rovina e ricoperte dalla vegetazione, altre no.) Quando ho richiuso queste botole e ho fatto ritorno, con grande rammarico, nell'atmosfera artefatta ancora pregna degli odori di quella vegetazione viva e in disfacimento, mi sono spesso chiesto se qualche corridoio non arrivi fino alla Cittadella. Una volta il vecchio Ultan mi aveva detto che la sua biblioteca si estendeva fino alla Casa Assoluta. Cosa vuol dire questo, se non che la Casa Assoluta si estende fino alla sua biblioteca? Esistono parti della Seconda Casa che ricordano i corridoi nei quali avevo cercato Triskele; potrebbero essere gli stessi corridoi e, se lo sono, quella volta avevo corso un rischio maggiore di quello che credevo.
Non so se queste mie riflessioni siano fondate e no; comunque, non le feci nel momento che vi sto raccontando. Nella mia ingenuità immaginavo che i confini della Casa Assoluta, che si estendevano nello spazio e nel tempo molto più di quanto gli ignari potessero supporre, fossero ben definiti e che io fossi ormai vicino a essi, o che presto li avrei raggiunti, se non li avevo già oltrepassati. Così, camminai per tutta la notte e mi diressi verso nord orientandomi con le stelle. E mentre camminavo pensavo alla mia vita, come cerco di non fare quando aspetto il sonno. Ancora una volta io, Drotte e Roche nuotammo nella cisterna scivolosa sotto il Forte della Campana; ancora una volta sostituii il folletto-giocattolo di Josephina con un ranocchio rubato; ancora una volta allungai la mano per prendere l'impugnatura dell'ascia che avrebbe ucciso Vodalus e avrebbe quindi salvato Thecla, allora libera; ancora una volta vidi il nastro scarlatto insinuarsi sotto la porta di Thecla, Malrubius che si chinava su di me, Jonas che spariva nell'infinito tra le dimensioni. Giocai nuovamente con i ciottoli nel cortile vicino al muro crollato, mentre Thecla evitava gli zoccoli delle cavalcature delle guardie di mio padre.
Continuai a temere i soldati dell'Autarca ancora a lungo dopo aver visto l'ultima balaustrata; in seguito, quando non avvistai più nemmeno una pattuglia in lontananza, iniziai a disprezzarli, considerando che la loro inefficienza doveva far parte della disorganizzazione capillare che avevo avuto modo di notare tante volte nel Regno. Con il mio aiuto o senza, conclusi, Vodalus avrebbe annientato quegli inetti... anzi, avrebbe anche potuto farlo in quello stesso momento, se solo avesse attaccato.
Eppure l'androgino con il vestito giallo che conosceva la parola d'ordine di Vodalus e a cui era destinato il mio messaggio era senza dubbio l'Autarca, il capo di tutti quei soldati e del Regno intero, nella misura in cui quest'ultimo riconosceva un capo. Thecla l'aveva visto spesso; i suoi ricordi erano diventati miei e quell'uomo era l'Autarca. Se Vodalus aveva già vinto, perché mai rimaneva nell'ombra? Oppure Vodalus non era altro che una creatura dell'Autarca? (In tal caso, per quale motivo Vodalus mi aveva parlato di lui come di un servitore?) Cercai di convincermi che i fatti accaduti nella camera del quadro e nel resto della Seconda Casa non erano stati altro che un sogno; ma sapevo che non era vero, e non avevo più l'acciarino.
Pensare a Vodalus mi fece tornare in mente l'Artiglio, che lo stesso Autarca mi aveva sollecitato a restituire all'ordine delle pellegrine. Lo estrassi. La sua luce era tenue, né luminosa come nella miniera degli uomini-scimmia né opaca come quando io e Jonas l'avevamo studiato nell'anticamera. Nonostante stesse nel palmo della mia mano, mi parve una grande polla di acqua azzurra, più pura della cisterna, molto più pura del Gyoll, e nella quale mi sarei potuto tuffare... anche se, facendolo, avrei inspiegabilmente compiuto un tuffo verso l'alto. Era contemporaneamente consolante e perturbante. Lo rimisi nello stivale e proseguii.
L'alba mi colse lungo un angusto sentiero che percorreva una foresta più imponente, nella sua decadenza, di quella che circondava le Mura di Nessus. I freschi archi di felci che caratterizzavano quella erano assenti, ma le liane dalle dita carnose si avviluppavano come etere agli enormi mogani e alle piante della pioggia, trasformando i lunghi rami in ricche, ondeggianti cortine verdi spruzzate di fiori. Uccelli a me ignoti cinguettavano sui rami più alti e una scimmia che, se non fosse stato per le quattro mani, avrei potuto confondere con un vecchio rugoso dalla barba rossa e avvolto da una pelliccia, mi osservava da una biforcazione alta come un campanile. Quando le forze mi vennero meno, trovai un angolino asciutto e fresco, in mezzo alle radici grosse come colonne, e mi strinsi nel mantello.
Frequentemente ho dovuto inseguire il sonno come se si trattasse della più fuggevole fra le chimere, per metà fiaba e per metà aria. In quel momento, invece, mi assalì di colpo. Avevo appena chiuso gli occhi quando mi rividi dinnanzi il gigante impazzito. Brandivo Terminus est, che però era poco più di una bacchetta. Al posto di trovarci su un palcoscenico, eravamo su uno stretto bastione. Da un lato brillavano le torce di un esercito, dall'altro un precipizio terminava in un vasto lago che era e nello stesso tempo non era la polla azzurra dell'Artiglio. Baldanders sollevò la terribile fiaccola e io mi trasformai, non so come, nella figura infantile che avevo visto in fondo al mare. Le donne gigantesche, lo avvertivo, non erano molto lontane. La mazza si avventò,
Era pomeriggio e le formiche avevano creato una carovana lungo il mio petto. Dopo aver camminato per due o tre turni di guardia in mezzo a quella nobile foresta condannata, mi imbattei in un sentiero più largo: dopo un altro turno di guarda, mentre le ombre si allungavano, mi fermai, fiutai l'aria e mi accertai che l'odore che avevo percepito dipendesse veramente da un fuoco. Ero dilaniato dalla fame, e mi affrettai ad andare avanti.
XXVI
SEPARAZIONE
Nel punto in cui il sentiero si incrociava con un altro, quattro persone erano sedute intorno a un piccolo fuoco. Per prima riconobbi Jolenta... la sua bellezza trasformava quella radura in un paradiso. Quasi nello stesso istante Dorcas mi vide e corse a baciarmi; distinsi la faccia volpina del dottor Talos dietro la massiccia spalla di Baldanders.
Il gigante, che avrei dovuto notare per primo, era cambiato al punto da essere quasi irriconoscibile. Il capo era avvolto da bende sporche e la schiena, al posto di essere coperta dalla solita giubba nera e sformata, era stata spalmata con un unguento viscoso che pareva argilla e che emanava l'odore dell'acqua stagnante.
— Ben trovato, ben trovato! — urlò il dottor Talos. — Ci stavamo chiedendo dove fossi finito. — Baldanders con un cenno della testa spiegò che era stata Dorcas a porsi quella domanda; ma era evidente.
— Sono fuggito — risposi. — Ed è scappata anche Dorcas. Mi stupisce che non vi abbiano uccisi.
— L'abbiamo rischiato — riconobbe il dottore, annuendo.
Jolenta scosse le spalle, trasformando quel semplice gesto in una squisita cerimonia. — Anch'io sono scappata. — Si strinse i seni enormi con le mani. — Ma non penso di essere portata per la corsa, sai? Comunque, nell'oscurità sono andata a sbattere contro un esultante, che mi ha garantito protezione. Ma poi sono sopraggiunti degli spani... un giorno mi piacerebbe avere i loro animali per trainare la mia carrozza... e con loro c'era anche un alto funzionario, uno di quelli che non si interessano alle donne. Allora ho sperato che mi conducessero dall'Autarca, i cui pori risplendono più delle stelle, come stava per succedere nel dramma. Invece, loro hanno obbligato il mio esultante ad andarsene e me a tornare al teatro, dove ho ritrovato lui — Jolenta additò Baldanders — e il dottore. Il dottore lo stava spalmando di unguento e i soldati erano intenzionati ad ammazzarci, anche se ero certa che non volessero uccidere me. Quindi ci hanno lasciati liberi di andarcene, ed eccoci qui.
Il dottor Talos continuò il racconto: — All'alba abbiamo trovato Dorcas. O meglio, è stata lei a trovare noi e da quel momento ci siamo diretti verso le montagne, avanzando a passo lento. Adagio, nonostante non si senta bene, Baldanders è l'unico in grado di trasportare i nostri bagagli e per quanto ne abbiamo abbandonati una gran parte, ci sono alcuni oggetti che è necessario tenere.
Manifestai il mio stupore per il fatto che Baldanders fosse ancora vivo.
— Il dottor Talos lo ha fermato — mi spiegò Dorcas. — Esatto, dottore? È così che lo hanno catturato. È stupefacente che non li abbiano uccisi.
— Eppure, come puoi vedere — disse sorridendo il dottor Talos, — siamo ancora qui. E per quanto ridotti piuttosto male, siamo ricchi. Fai vedere a Severian i nostri soldi, Baldanders.
Con fatica, il gigante si mosse ed estrasse una gonfia borsa di cuoio. Dopo aver fissato il dottore, come se stesse aspettando degli altri ordini, slegò il laccio e rovesciò nella sua enorme mano una pioggia di crisi appena usciti dal conio.
Il dottor Talos ne prese uno e lo mise controluce. — Per quanto tempo un uomo che vive in un villaggio di pescatori sul lago di Diuturna si offrirebbe di costruire muri in cambio di questa?
— Almeno per un anno — dissi.
— Per due anni! Ogni giorno, estate e inverno, pioggia o sole, purché lo paghiamo in monetine di rame, come faremo. Ci saranno cinquanta uomini pronti ad aiutarci a ricostruire la nostra casa. Aspetta di vederla!
Baldanders disse, con la sua voce profonda: — Se saranno disposti a lavorare.
Il dottore dai capelli rossi si volse di scatto verso di lui. — Lo faranno! Ho imparato qualcosa, l'ultima volta, lascia che te lo dica!
— Immagino che una parte di quei soldi spetti a me e un'altra a quelle donne, giusto? — intervenni.
Il dottor Talos si rilassò. — Oh, certo. Me ne ero dimenticato. Le donne hanno già ricevuto la loro parte. E metà di questi sono tuoi. In fondo, non li avremmo guadagnati se non ci fossi stato tu. — Afferrò le monete dalla mano del gigante e iniziò a dividerle in due mucchietti, davanti a sé.
Pensai che volesse riconoscermi una parte nel successo del dramma. Ma Dorcas, comprendendo che quelle parole nascondevano qualcosa di più, chiese: — Perché dici così, dottore?
La faccia volpina sorrise. — Severian ha amicizie altolocate. Ammetto che lo sospettavo da lungo tempo... un torturatore che vaga per le strade come un vagabondo sarebbe troppo difficile da ingoiare anche per Baldanders e io, penso, ho la gola ancora più stretta.
— Se veramente possiedo amicizie di tal genere — dissi io, — non so nemmeno di chi si tratti.
I due mucchi di monete erano identici e il dottore ne allungò uno verso di me, l'altro verso il gigante. — Quando ti vidi la prima volta, nello stesso letto di Baldanders, pensai che dovessi impedirci di mettere in scena il nostro dramma... sotto alcuni aspetti, come avrai potuto constatare, è almeno in apparenza critico verso l'Autarca.
— In effetti — commentò sarcastica Jolenta.
— Ma certamente disturbare un torturatore solo per intimorire un paio di nomadi saltimbanchi sarebbe stato un po' eccessivo e assurdo. In seguito ho capito che noi, con il nostro dramma, ti servivamo da copertura. Pochi arriverebbero a immaginare un servitore dell'Autarca partecipe di una simile iniziativa. Ho aggiunto la parte del Familiare in modo da poterti mimetizzare meglio, creando una spiegazione per la tua veste.
— Non so niente di tutto questo — risposi.
— Infatti. Non è mia intenzione obbligarti a tradire l'impegno assunto. Ma ieri, mentre stavamo allestendo il nostro teatro, un servitore altolocato della Casa Assoluta, un agamita penso, e quelli sono i più vicini alle massime autorità, mi ha chiesto se tu recitavi con noi e se eri presente. Tu e Jolenta vi eravate allontanati, ma io ho dato una risposta affermativa. Allora mi ha domandato quale sarebbe stato il tuo guadagno per la rappresentazione e quando gliel'ho spiegato, mi ha detto che gli era stato ordinato di pagarci per lo spettacolo della sera. Ed è stata la nostra fortuna, dal momento che questo grosso idiota si è avventato contro il pubblico.
Fu una delle poche volte nelle quali vidi Baldanders risentirsi per le battute del suo dottore. A fatica ci volse le spalle.
Dorcas aveva detto che quando avevo dormito nella tenda del dottor Talos ero stato come solo. Compresi che anche il gigante si sentiva solo; per lui nella radura c'era unicamente lui, più qualche piccolo animale domestico del quale iniziava ad averne abbastanza.
— Ha pagato per quello che ha fatto — dissi. — Mi sembra che non sia ridotto molto bene.
Il dottore assentì. — In verità Baldanders è stato fortunato. Gli ieroduli avevano regolato al minimo i loro raggi e hanno cercato di tenerlo lontano e non di ucciderlo. Se è vivo lo deve solo alla loro generosità, e ben presto sarà nuovamente in forma.
Dorcas sussurrò: — Vuoi dire che guarirà? Me lo auguro. Mi fa molta pietà.
— Tu hai il cuore tenero. Troppo tenero, probabilmente. Ma Baldanders deve ancora crescere e i bambini che stanno crescendo possiedono grandi capacità di ripresa.
— Deve ancora crescere? — domandai io. — I suoi capelli sono già grigi.
Il dottore rise, — Allora è probabile che stia diventando rimbambito. Ma adesso, cari amici... — Si levò in piedi e si spolverò i calzoni. — Siamo giunti, come giustamente dice il poeta, nel luogo in cui gli uomini vengono divisi dalle loro destinazioni. Ci siamo fermati, Severian, non solo per riposare, ma anche perché qui la strada che conduce verso Thrax, verso cui sei diretto, si divide da quella che porta al lago Diuturna e al nostro paese. Non volevo oltrepassare questo punto, l'ultimo nel quale avrei avuto la possibilità di vederti, senza aver effettuato una giusta divisione dei nostri guadagni... e ora l'abbiano fatta. Se sentirai ancora i tuoi benefattori della Casa Assoluta, riconoscerai di essere stato trattato con equanimità?
Il mucchio di crisi era ancora per terra davanti a me. — È cento volte più di quello che mi ero aspettato di ricevere — risposi. — Sì, lo dirò certamente. — Raccolsi le monete e le misi nella borsa appesa alla cintura.
Dorcas e Jolenta si guardarono e Dorcas dichiarò: — Io vado a Thrax, se è là che sta andando Severian.
Jolenta allungò una mano verso il dottore, per farsi aiutare a rialzarsi.
— Io e Baldanders proseguiremo soli — disse il dottor Talos. — E viaggeremo per tutta la notte. Ci mancherete, tutti, ma è giunto il momento della separazione. Dorcas, figliola, sono contento che tu abbia trovato un protettore. — Jolenta gli posò la mano sulla coscia. — Vieni, Baldanders, dobbiamo andare.
Il gigante si levò in piedi, pesantemente, e nonostante non gli sfuggisse nemmeno un gemito era evidente che stava soffrendo. Le bende erano bagnate di sudore e di sangue. Sapevo che cosa avrei dovuto fare, perciò dissi: — Io e Baldanders dobbiamo parlare in privato per un momento. Posso chiedervi di allontanarvi di un centinaio di passi?
Le donne si spostarono; Dorcas si incamminò lungo un sentiero e Jolenta (che Dorcas aveva aiutato a rialzarsi) lungo un altro, il dottor Talos invece restò fino a quando lo invitai una seconda volta ad allontanarsi.
— Vuoi che me ne vada anch'io? È inutile. Baldanders mi riferirà tutto quello che gli dirai non appena ci saremo riuniti. Jolenta! Vieni qui, cara.
— Se ne sta andando perché gliel'ho chiesto io, come ho fatto con te.
— È vero, ma si è incamminata nella direzione sbagliata, e non posso accettarlo. Jolenta!
— Dottore, io intendo solo aiutare il tuo amico... o il tuo schiavo o quello che è.
Senza preavviso, la voce profonda di Baldanders fuoriuscì dall'intrico delle bende. — Io sono il suo padrone.
— Infatti — disse il dottore. Raccolse il mucchio di crisi che aveva spinto verso il gigante e glielo lasciò cadere in tasca.
Jolenta era tornata zoppicante verso di noi, con il bellissimo volto bagnato di lacrime. — Dottore, non posso venire con te?
— No, naturalmente — rispose lui con noncuranza, come se si trovasse davanti a una bambina che reclamava una seconda fetta di torta. Jolenta si gettò ai suoi piedi.
Sollevai lo sguardo verso il gigante. — Baldanders, io posso aiutarti. Non molto tempo fa un mio amico è rimasto ustionato come te e sono riuscito ad aiutarlo. Ma non farò niente davanti al dottor Talos e a Jolenta. Vuoi seguirmi per un breve tratto, lungo la strada che conduce alla Casa Assoluta?
Adagio, il gigante voltò la testa da una parte e poi dall'altra.
— Conosce già il balsamo che intendi proporgli — disse ridendo il dottor Talos. — Lui stesso lo ha concesso a molti, ma in verità ama troppo la vita.
— Ed è la vita che gli sto offrendo, non la morte.
— Veramente? — Il dottore inarcò un sopracciglio. — E dove si trova ora il tuo amico?
Il gigante aveva impugnato i manici della carriola. — Baldanders — dissi. — Hai mai sentito parlare del Conciliatore?
— Molto tempo fa — rispose. — Non ha più importanza. — Si incamminò lungo il sentiero opposto a quello preso da Dorcas. Il dottor Talos lo seguì di qualche passo, con Jolenta appesa al suo braccio, poi si fermò.
— Severian, tu hai preso in custodia diversi prigionieri, se è vero quello che mi hai raccontato. Se Baldanders ti desse un altro criso, custodiresti questa creatura fino a quando noi saremo abbastanza lontani?
Ero ancora sconvolto dalla sofferenza del gigante e dal mio fallimento, ma mi feci forza e risposi: — In qualità di membro della corporazione posso accettare incarichi solo dalle autorità legali.
— Allora quando saremo fuori dalla tua visuale la uccideremo.
— È una questione fra voi tre — dissi io, e mi incamminai per raggiungere Dorcas.
Ero appena arrivato al suo fianco quando udimmo le grida di Jolenta. Dorcas si fermò e aumentò la stretta sulla mia mano, chiedendomi che cosa fossero quegli urli. Le riferii la minaccia del dottore.
— E l'hai lasciata con loro?
— Non pensavo che Talos stesse parlando seriamente.
Ci eravamo fermati e avevamo iniziato a tornare indietro quando le urla lasciarono il posto a un silenzio tanto profondo che avremmo sentito il fruscio di una foglia morta. Accelerammo il passo, ma quando giungemmo al crocevia ebbi la certezza che fosse troppo tardi; continuavo a correre solo per non deludere Dorcas.
Mi ero sbagliato. Jolenta non era morta, e quando superammo una curva del sentiero la vedemmo correre verso di noi, con le ginocchia unite come se le sue gambe fossero ostacolate dalle cosce abbondanti e con le braccia incrociate sui seni per sostenerli. I meravigliosi capelli d'oro rosso le ricadevano sul viso e la leggera veste d'organza era a brandelli. Quando Dorcas l'abbracciò svenne. — Quei demoni l'hanno picchiata — disse Dorcas.
— Un momento fa credevamo che l'avessero uccisa. — Osservai i lividi sulla schiena della bella donna. — È stato il bastone del dottore, penso. È stata fortunata, perché Talos avrebbe potuto aizzarle contro Baldanders.
— Ma cosa possiamo fare?
— Possiamo provare con questo. — Levai dallo stivale l'Artiglio e glielo mostrai. — Rammenti l'oggetto che trovammo nella mia borsa? Tu sostenevi che non si trattava di una vera gemma. Eccolo, e pare che, a volte, sia in grado di aiutare i feriti. Volevo usarlo per Baldanders, ma lui non me lo ha permesso.
Tenni l'Artiglio sopra il capo di Jolenta, quindi lo feci passare sopra la schiena piena di lividi, ma la sua luce non aumentò e la donna non parve riceverne beneficio. — Non funziona — dissi. — Dovremo trasportarla.
— Caricatela su una spalla, altrimenti la stringerai proprio nel posto più dolorante.
Dorcas prese Terminus est e io seguii il suo consiglio. Jolenta pesava quasi quanto un uomo. Camminammo così per molto tempo, sotto il baldacchino verde pallido delle foglie, prima che Jolenta tornasse in sé. Anche dopo aver ripreso conoscenza faceva fatica a sostenersi e a camminare da sola, e persino a rigettare indietro con le dita i suoi incredibili capelli, che velavano l'ovale del suo volto rigato di lacrime.
— Il dottore non ha voluto che andassi con loro — disse.
Dorcas assentì. — Pare di no. — Lo disse come se stesse parlando con una bambina.
— Adesso sarò annientata.
Le chiesi che cosa avesse voluto dire, ma lei si limitò a scuotere il capo. Poco dopo disse: — Posso venire con te, Severian? Non ho soldi. Baldanders si è ripreso quello che mi aveva dato il dottore. — Gettò uno sguardo obliquo a Dorcas. — Anche lei ha del denaro... più di me. La stessa somma che hai ricevuto tu.
— Lo sa — disse Dorcas. — E sa anche che tutto il mio denaro è suo, se lo desidera.
Cambiai discorso. — Entrambe dovete sapere che non andrò a Thrax, o per lo meno non subito. Prima devo trovare l'ordine delle pellegrine.
Jolenta mi fissò come se fossi impazzito. — Ho sentito dire che girano per tutto il mondo. Inoltre, accettano solo donne.
— Non ho nessuna intenzione di entrare nel loro ordine, devo solo trovarle. Le ultime notizie che mi sono giunte dicevano che erano dirette a nord. Ma se riuscirò a scoprire dove sono, le dovrò raggiungere... anche a costo di tornare a sud.
— Io verrò con te — affermò Dorcas. — Non andrò a Thrax.
— E io non andrò da nessuna parte — sospirò Jolenta.
Non essendo più costretti ad aiutarla, Dorcas e io la precedemmo di qualche passo. Dopo aver camminato un po', mi voltai a guardarla. Aveva smesso di piangere, ma quasi non riuscii a riconoscere la bellissima donna che aveva accompagnato il dottor Talos. Aveva perso la fierezza e l'arroganza del portamento, le spalle non erano più all'indietro e gli occhi splendidi non lampeggiavano più come smeraldi. Era stanca e guardava il terreno.
— Di cosa hai parlato con il dottore e con il gigante? — domandò Dorcas, mentre camminavamo.
— Te l'ho già detto — risposi.
— A un certo punto hai urlato tanto forte che ho potuto distinguere le tue parole. «Hai mai sentito parlare del Conciliatore?» dicevi. Ma tu non lo sai o stavi solo cercando di scoprire cosa sapessero loro? Non l'ho capito.
— In verità non ne so quasi niente. Ho visto dei quadri che dovrebbero rappresentarlo, ma sono talmente differenti fra di loro che non sembrano nemmeno raffigurare la stessa persona.
— Esistono le leggende.
— La maggior parte di quelle che conosco sono talmente ridicole. Mi piacerebbe che Jonas fosse ancora qui. Lui si prenderebbe cura di Jolenta e noi verremmo a sapere molto di più sul Conciliatore. Jonas è l'uomo che incontrammo alla Porta della Misericordia, quello che cavalcava il merichippo. È stato mio compagno per diverso tempo, un buon amico.
— Adesso dove si trova?
— È quello che voleva sapere anche il dottor Talos. Non lo so, e preferisco non parlarne. Se proprio ti fa piacere chiacchierare, raccontami qualcosa sul Conciliatore.
Fu sicuramente solo una mia impressione, ma appena ebbi profferito quel nome mi parve che il silenzio della foresta diventasse insopportabilmente pesante. Il sospiro del vento fresco, fra i rami più alti, sembrava il lamento di un malato; il verde pallido delle foglie affamate di luce rammentava i volti emaciati dei bambini denutriti.
— Nessuno sa molto di lui — iniziò Dorcas. — E probabilmente io ne so ancora meno di te. Comunque, alcuni sostengono che fosse poco più di un ragazzo: altri che non fosse un uomo... non un cacogeno, ma il pensiero, resosi tangibile per noi, di un'intelligenza rispetto alla quale la nostra realtà non è altro che un teatrino di carta. Si dice che una volta prese la mano di una donna in punto di morte e con l'altra mano toccò una stella: da quell'istante gli fu conferito il potere di riconciliare l'umanità con l'universo e l'universo con l'umanità, risanando l'antica frattura. Spesso spariva e poi riappariva quando tutti lo credevano morto... a volte si faceva vedere anche dopo che l'avevano sepolto. Lo si poteva incontrare sotto forma di un animale capace di usare la lingua degli uomini e alcune donne devote lo vedevano sotto forma di rosa.
Rammentai la cerimonia durante la quale mi era stata donata la maschera. — Santa Caterina, immagino, durante la sua esecuzione.
— Alcune leggende sono ancora più tenebrose.
— Raccontamele.
— Mi facevano paura — disse Dorcas. — Adesso non le ricordo nemmeno. Il tuo libro marrone non parla di lui?
Presi il libro e vidi che ne parlava; quindi, dal momento che non mi era possibile leggere tranquillamente mentre camminavo, lo riposi nella borsa e stabilii di consultarlo dopo esserci accampati, cosa che ben presto avremmo dovuto fare.
XXVII
VERSO THRAX
Il sentiero continuava a snodarsi nella foresta sofferente. Lo percorremmo interamente e un turno di guardia dopo il tramonto giungemmo sulla riva di un fiume più piccolo e più impetuoso del Gyoll, e alla luce della luna ci apparvero ampie distese di canne ondeggianti nel vento notturno sulla sponda opposta. Da tempo Jolenta singhiozzava per la stanchezza, così io e Dorcas decidemmo di fermarci. Dal momento che non intendevo rovinare la lama affilatissima di Terminus est sui duri tronchi della foresta, la legna da ardere sarebbe scarseggiata; i rami morti che avevamo raccolto erano impregnati d'acqua e resi spugnosi dal disfacimento. La riva del fiume, invece, offriva molteplici ramoscelli contorti e secchi, rigidi e leggeri.
Ne avevamo già spezzati parecchi quando mi sovvenni di non avere più l'acciarino; l'avevo consegnato all'Autarca, che certamente era lo stesso «servitore altolocato» che aveva colmato di crisi le mani del dottor Talos. Comunque, Dorcas nel suo scarso bagaglio possedeva acciarino ed esca e ben presto fummo rallegrati da un bel fuoco scoppiettante. Jolenta aveva il terrore delle bestie selvatiche, nonostante avessi cercato di farle capire che le guardie difficilmente avrebbero tollerato la presenza di animali pericolosi all'interno di una foresta che confinava con la Casa Assoluta. Per tranquillizzarla, creai tre grosse torce con dei rami robusti, così che in caso di emergenza avremmo potuto usarle per minacciare le belve che le incutevano una simile paura.
Le belve non apparvero e il fuoco allontanò le zanzare, perciò ci sdraiammo supini a guardare le scintille che salivano nell'aria. Molto più in alto, i velivoli illuminati passavano avanti e indietro, riempiendo per un istante o due il cielo di una spettrale alba, mentre i ministri e i generali dell'Autarca facevano ritorno alla Casa Assoluta o se ne andavano diretti alla guerra. Io e Dorcas ci domandammo che cosa avrebbero pensato, guardando in basso e notando la nostra stella scarlatta; concludemmo che avrebbero fatto le nostre stesse riflessioni, domandandosi di chi potesse trattarsi e dove stessero andando e per quale motivo. Dorcas mi cantò una canzone; raccontava la storia di una fanciulla che vaga in primavera per un boschetto, colma di nostalgia per le sue amiche dell'anno precedente, le foglie cadute.
Jolenta si era sdraiata fra il fuoco e il fiume: credo che si sentisse più al sicuro. Io e Dorcas eravamo dalla parte opposta del fuoco, non solo per essere il più appartati possibile, ma anche perché Dorcas, come già sapevo, detestava la vista e il suono del piccolo corso d'acqua freddo e scuro. — Mi ricorda un verme — disse. — Un grande serpente nero che per il momento non ha fame, ma sa dove ci troviamo e fra poco potrebbe divorarci. Non ti fanno paura i serpenti, Severian?
Thecla li aveva temuti; a quella domanda percepii l'ombra della sua paura fremere. Annuii.
— Ho sentito dire che nelle afose foreste del nord l'autarca di tutti i serpenti è Uruboros, il fratello di Abaia, e pare che la sua tana appaia ai cacciatori come un tunnel sotto il mare; penetrandovi, gli uomini entrano nella sua bocca e ignari gli vanno a finire in gola, così che sono già morti mentre credono di vivere ancora. Nonostante tutto questo, alcuni continuano a sostenere che Uruboros sia solo il grande fiume che scorre fino a fare ritorno alla sorgente oppure il mare stesso, che divora il proprio inizio.
Mentre parlava, Dorcas mi si avvicinò maggiormente e io la circondai con le braccia. Sapevo che mi desiderava, ma non potevamo avere la certezza che Jolenta stesse dormendo. Di tanto in tanto si muoveva e i fianchi abbondanti, insieme alla vita sottile e ai capelli vaporosi, rendevano lei stessa simile a un serpente. Dorcas avvicinò il suo volto minuto e terribilmente puro al mio e io la baciai; la senfii stringersi a me, tremante di desiderio.
— Ho tanto freddo — sussurrò.
Era nuda, anche se non l'avevo vista spogliarsi. Quando la circondai con il mio mantello mi accorsi che era accaldata, come me, per il riverbero delle fiamme. Infilò le mani delicate sotto i miei vestiti e mi accarezzò.
— Mi piace — disse. — Sei così liscio. — E poi, nonostante l'avessimo già fatto: — Non sarò troppo piccola? — Sembrava una bambina.
Quando mi svegliai, la luna (non mi sembrava possibile che si trattasse della stessa luna che mi aveva guidato attraverso i giardini della Casa Assoluta) era già quasi arrivata all'orizzonte occidentale. La luce di berillio si stendeva sul fiume, attribuendo a ogni increspatura l'ombra nera delle onde.
Avvertivo una strana sensazione di disagio e non riuscivo a spiegarmela. La paura delle bestie feroci che assillava Jolenta non mi sembrava più tanto fuori luogo. Mi alzai in piedi e dopo essermi accertato che Dorcas e lei stessero bene, mi recai in cerca di altra legna per il fuoco ormai quasi spento. Mi vennero in mente le notule che venivano lanciate di notte, come mi aveva detto Jonas, e la cosa dell'anticamera. Gli uccelli notturni volavano in alto, lassù... non solo gufi simili a quelli che facevano il nido in grande numero fra le torri diroccate della Cittadella, con le loro teste rotonde e le ali corte, ampie e silenziose, ma anche uccelli di specie a me sconosciute, con le code divise in due e in tre, uccelli che scendevano in picchiata sull'orlo dell'acqua e che volavano cinguettando. Di tanto in tanto delle falene, più grosse di tutte le altre che avevo avuto modo di vedere, passavano da un albero all'altro. Le loro ali istoriate erano lunghe quanto le braccia di un uomo e comunicavano fra loro come facciamo noi, sebbene con voci troppo acute per poter essere udite dagli esseri umani.
Dopo aver riattizzato il fuoco, verificai che la spada fosse ancora al suo posto; guardai a lungo il volto innocente di Dorcas con le lunghe ciglia delicate chiuse nel sonno, poi mi sdraiai nuovamente a osservare gli uccelli che vagavano fra le costellazioni e fui avvinto da quel mondo della memoria che, per quanto amaro o dolce, non mi è mai del tutto proibito.
Cercai di ricordare la festa di santa Caterina, l'anno dopo essere diventato capitano degli apprendisti; i preparativi per il banchetto erano appena iniziati quando la mia mente fu sopraffatta da altri ricordi. Nella nostra cucina mi portai alle labbra una coppa di vino rubato... e mi accorsi che era diventata un seno traboccante di latte tiepido. Era il seno di mia madre, allora, e faticai a frenare l'entusiasmo (che avrebbe potuto allontanare quell'immagine) al pensiero di essere finalmente tornato a lei, dopo tanti vani tentativi. Le mie braccia si sforzarono di stringerla; se avessi potuto, avrei certamente sollevato lo sguardo per fissare il suo volto. Si trattava sicuramente di mia madre, perché i figli dei torturatori non conoscono il seno materno. Il grigio che coglievo ai margini della mia visuale, quindi, era la parete metallica della sua cella. Presto l'avrebbero portata via, a urlare nell'Apparato o a boccheggiare nella Collana di Hallowin. Mi sforzai di trattenerla, di segnare quell'immagine in modo da potervi fare ritorno in qualsiasi momento, ma lei si dileguò mentre cercavo di stringerla a me, svanendo come nebbia all'alzarsi del vento.
Ero ancora bambino... una bambina... Thecla. Mi trovavo in una camera bellissima le cui finestre erano specchi, che si illuminavano e riflettevano contemporaneamente. Intorno a me c'erano donne bellissime, alte il doppio di me o più, tutte più o meno nude. L'aria era pregna di profumi. Guardai se riuscivo a riconoscerne qualcuna, ma quando fissai i volti dipinti di quelle donne tanto alte, così belli e perfetti, iniziai a dubitare di poterci riuscire. Le guance mi si bagnarono di lacrime. Tre donne corsero verso di me e io le guardai, una dopo l'altra. I loro occhi si rimpicciolirono, divenendo semplicemente dei punti di luce, e una macchia a forma di cuore, vicino alle labbra della donna più vicina, allargò le ali palmate.
— Severian.
Mi misi a sedere, senza riuscire a capire quando il ricordo era diventato sogno. La voce era dolce ma molto profonda, e per quanto fossi certo di averla già sentita, non riuscivo a ricordare dove. La luna era ormai scesa dietro l'orizzonte occidentale e il nostro fuoco si era spento una seconda volta. Dorcas aveva spinto indietro la coperta strappata e stava dormendo con il suo corpo da silfide esposto all'aria della notte. Nel vederla così, con la pelle chiara resa ancor più diafana dalla pallida luce della luna a tratti illuminata dai rossi riflessi delle braci, avvertii un desiderio quale non avevo mai conosciuto... né quando avevo stretto a me Agia sulla Scalinata Adamniana, né quando avevo visto Jolenta per la prima volta sul palcoscenico del dottor Talos, e nemmeno tutte le volte che avevo raggiunto Thecla nella sua cella. Eppure, non desideravo Dorcas; l'avevo posseduta poco prima e, per quanto fossi certo che mi amasse, non potevo essere sicuro che si sarebbe così prontamente arresa a me senza l'episodio del pomeriggio precedente lo spettacolo con Jolenta, e senza la certezza che Jolenta ci stava spiando dall'altra parte del fuoco.
Non desideravo neppure Jolenta, che era sdraiata su un fianco e russava. Ma contemporaneamente, le volevo entrambe, e volevo Thecla, e la meretrice senza nome che si era presentata come Thecla nella Casa Azzurra, e la sua amica che aveva fatto la parte di Thea, la donna che avevo intravisto sulla scala. E ancora desideravo Agia, Valeria, Morwenna e mille altre. Rammentai le streghe con la loro follia e le loro danze sfrenate nel Vecchio Cortile, durante le notti di pioggia; e rammentai la fresca e pura bellezza delle pellegrine vestite di rosso.
— Severian.
Non stavo sognando. Gli uccelli addormentati sui rami a quel suono si erano agitati. Sfoderai Terminus est e lasciai che la sua lama riflettesse la fredda luce dell'alba, così che chi aveva parlato, chiunque fosse, sapesse che ero armato.
Tornò il silenzio... ancora più profondo che durante la notte. Aspettai, voltando adagio la testa per cercare di localizzare la persona che mi aveva chiamato per nome, anche se sapevo che sarebbe stato meglio fingere di sapere già la giusta direzione. Dorcas si mosse e si lamentò nel sonno, quindi continuò a dormire, e lo stesso fece Jolenta; non si udiva altro rumore all'infuori del crepitio del fuoco, del vento dell'alba e dello sciaguattare del fiumicello.
— Dove sei? — sussurrai, ma non ricevetti nessuna risposta. Un pesce fece un balzo provocando uno spruzzo d'argento, quindi ci fu ancora silenzio.
— Severian.
Per quanto profonda, si trattava di una voce femminile, vibrante di passione e di desiderio: mi tornò in mente Agia e tenni la spada sguainata.
— La barena...
Ero quasi sicuro che si trattasse di un trucco per convincermi a voltare le spalle agli alberi, ma lasciai che i miei occhi guardassero il fiume, fino a quando la vidi, a circa duecento passi di distanza dal nostro fuoco.
— Vieni qui.
Non era un trucco, o per lo meno non era il trucco che avevo temuto in un primo tempo. La voce proveniva dal basso.
— Vieni, ti prego. Non riesco a sentirti se rimani lì.
— Non ho parlato — obiettai, ma non ricevetti risposta. Aspettai, restio a lasciare sole Dorcas e Jolenta.
— Ti prego. Quando il sole raggiungerà l'acqua, io me ne dovrò andare e forse non avremo più un'altra occasione.
All'altezza della barena il fiumicello era più largo di quanto fosse più a valle e più a monte, e io riuscii a camminare sulla sabbia gialla senza bagnarmi gli stivali, fino quasi al centro. Sulla mia sinistra, l'acqua verdastra diventò più stretta e profonda. Alla mia destra invece vidi una polla ampia una ventina di passi, dalla quale l'acqua scorreva veloce ma tranquilla. Mi fermai sulla sabbia, stringendo Terminus est fra le mani, e feci affondare la punta squadrata della lama in mezzo ai miei piedi. — Sono arrivato — dissi. — Dove sei? Riesci a sentirmi adesso?
Come se il fiume stesso volesse darmi una risposta, immediatamente tre pesci balzarono nell'aria una, due volte, generando una serie di dolci esplosioni. Un mocassino d'acqua, con la schiena scura segnata da anelli intrecciati, nero e oro, guizzò vicinissimo alle punte dei miei stivali, si volse come se intendesse minacciare i pesci e si allontanò a nuoto, con lunghe ondulazioni. Era grosso quasi come il mio avambraccio.
— Non aver paura. Guarda. Guardami. Sappi che non ti farò alcun male.
L'acqua verdastra diventò ancora più verde. Mille tentacoli di giada fremevano sotto la superficie senza mai affiorare. Mentre guardavo, troppo incantato per intimorirmi, un disco bianco di tre passi di diametro comparve in mezzo a quei tentacoli, salendo adagio.
Solo quando arrivò a poche spanne dalla superficie, capii di che cosa si trattasse... e lo capii soltanto quando aprì gli occhi. Attraverso l'acqua un volto mi stava guardando, il volto di una donna che avrebbe potuto sollevare Baldanders come un giocattolo. I suoi occhi erano color porpora, la bocca aveva labbra carnose, di un cremisi tanto scuro che dapprima pensai che non fossero nemmeno labbra. In mezzo a esse stava un esercito di denti aguzzi: i tentacoli verdi che le contornavano il volto erano capelli fluttuanti.
— Sono venuta per te, Severian — disse. — No, non è un sogno.
XXVIII
L'ODALISCA DI ABAIA
— Ti ho già sognata una volta — dissi. Attraverso l'acqua, riuscivo a vedere vagamente il suo corpo nudo, enorme e lucente.
— Stavamo guardando il gigante e ti abbiamo trovato. Purtroppo ti abbiamo perso di vista troppo presto, quando voi due vi siete separati. Tu eri convinto di essere odiato, e non immaginavi quanto invece fossi amato. Tutti i mari del mondo hanno tremato, scossi dal nostro dolore per te, e le onde hanno pianto lacrime salate e si sono lanciate sugli scogli in preda alla disperazione.
— Cosa vuoi da me?
— Solamente il tuo amore. Solo quello.
Mentre parlava, fece affiorare la mano destra in superficie e la lasciò galleggiare come una zattera di cinque tronchi bianchi. Sembrava davvero la mano dell'orco che aveva incisa nel polpastrello dell'indice la mappa dei suoi possedimenti.
— Forse non sono abbastanza bella? Dove hai visto una pelle più chiara o delle labbra più rosse?
— Sei splendida — risposi, sinceramente. — Ma posso chiederti per quale motivo stavi guardando Baldanders, quando ci siamo incontrati? E perché non osservavi me, se era quello che desideravi fare?
— Noi controlliamo il gigante perché sta crescendo. Da questo punto di vista è simile a noi e al nostro padre-consorte, Abaia. Quando la terra non riuscirà più a sostenerlo, dovrà venire in acqua. Ma tu puoi venire adesso, se lo desideri. Grazie al nostro dono, riuscirai facilmente a respirare come fai qui con il vento rarefatto e tenue, e quando lo chiederai potrai fare ritorno sulla terraferma e riprendere la tua corona. Questo fiume, che si chiama Cephissus, arriva fino al Gyoll, e il Gyoll arriva al mare. Là potrai cavalcare i delfini sui campi di corallo e di perle spazzati dalle correnti. Io e le mie sorelle ti faremo vedere le città dimenticate, costruite in tempi antichi, nelle quali cento generazioni dei tuoi simili, prigionieri, si riprodussero e morirono, dopo che voi che vivete quassù li avevate dimenticati.
— Ma io non ho nessuna corona da riprendere — obiettai. — Mi hai preso per qualcun altro.
— Tutte noi saremo tue, là, nei parchi rossi e bianchi percorsi dai branchi dei pesci-leone.
Mentre parlava, sollevò lentamente il mento, rovesciando la testa indietro fino a quando tutto il volto si trovò alla stessa profondità, appena sotto la superficie. Quindi spuntarono la gola bianca e i seni dalle punte porpora, accarezzati dalle increspature dell'acqua. Il fiume scintillava di mille bollicine. Nel tempo di pochi respiri l'ondina si adagiò del tutto sulla corrente: era alta almeno quaranta cubiti.
Nessuno dei miei lettori probabilmente riuscirà a capire come io potessi sentirmi attratto da una simile mostruosità, eppure volevo assolutamente credere alle sue parole, seguirla, come un uomo che sta annegando brama respirare l'aria. Se avessi creduto completamente alle sue promesse, in quel momento mi sarei tuffato nella.polla, dimenticando tutto il resto.
— Tu hai una corona, anche se ancora non lo sai. Pensi che noi, che nuotiamo in tante acque e persino tra le stelle, non possiamo vagare nel tempo? Abbiamo visto il tuo futuro e il tuo passato. Solo ieri giacevi nella mia mano e io ti ho sollevato sopra le alghe aggrovigliate per non lasciarti morire nel Gyoll, e l'ho fatto solo per poter vivere questo momento.
— Concedimi il potere di respirare nell'acqua — chiesi. — E lascia che io lo metta in pratica dall'altra parte della barena. Se capirò che hai detto la verità, ti seguirò.
Vidi le sue labbra enormi aprirsi. Non so dire quanto parlasse forte per permettere a me che mi trovavo nell'aria di sentire le sue parole, ma i pesci sobbalzarono.
— Non è così semplice. Tu mi devi seguire, fiducioso, anche se per un solo istante. Vieni.
Allungò la mano verso di me e in quell'istante udii la voce di Dorcas, piena di angoscia, che chiedeva aiuto.
Mi volsi per correre da lei. Se l'ondina mi avesse trattenuto probabilmente sarei rimasto. Ma non aspettò. L'intero fiume parve sollevarsi dal suo letto con un rombo analogo a quello dei flutti. Fu come se un lago fosse stato gettato contro la mia testa; mi colpì come un masso e io caddi nell'acqua, simile a un fuscello. Un momento dopo, quando tutto fu nuovamente calmo, mi ritrovai lontano, sulla riva, inzuppato d'acqua, pieno di lividi e privo della mia spada. A cinquanta passi di distanza, il corpo dell'ondina fuoriusciva per metà dal fiume. Non più sorretta dall'acqua, la sua carne tremolava sulle ossa che parevano sul punto si rompersi per il peso, e i capelli pendevano inerti sulla sabbia bagnata. Mentre la osservavo, dalle sue narici sgorgò un fiotto di acqua mista a sangue.
Scappai e, quando raggiunsi Dorcas vicino al fuoco, l'ondina non c'era più. Al suo posto vidi solo un gorgo di residui che oscuravano il fiume, più a valle della barena.
Il volto di Dorcas era pallidissimo. — Cos'era? — bisbigliò. — Dove eri andato?
— Allora l'hai vista. Temevo...
— Pauroso. — Dorcas si gettò fra le mie braccia stringendosi a me. Pauroso.
— Ma non hai gridato per questo motivo, vero? Non potevi vederla, prima che uscisse dalla polla.
In silenzio, Dorcas mi additò il lato opposto del fuoco, e mi accorsi che il terreno era intriso di sangue, nel punto in cui era sdraiata Jolenta.
Il suo polso sinistro mostrava due tagli sottili lunghi quanto il mio pollice: per quanto li toccassi con l'Artiglio, il sangue non si coagulò. Dopo aver impregnato di sangue numerose bende ottenute strappando il ridotto guardaroba di Dorcas, feci bollire ago e filo in un tegame che lei mi diede e suturai i lembi delle ferite. Jolenta pareva priva di senso: di tanto in tanto apriva gli occhi, ma li richiudeva quasi subito e sembrava non riconoscerci. Parlò una sola volta e disse: — Adesso potrai constatare che lui, che tu ritieni la tua divinità, accetta e propone tutto quello che io ho detto a te. Prima che giunga il Nuovo Sole, creiamo un nuovo inizio. Al momento non mi ricordai che si trattava di una delle sue battute del dramma.
Quando la ferita smise di sanguinare e noi adagiammo Jolenta sul terreno pulito e finimmo di lavarla, feci ritorno nel luogo in cui mi ero ritrovato quando l'acqua si era ritirata e dopo alcune ricerche trovai Terminus est: dalla sabbia bagnata spuntavano soltanto il pomolo e due dita dell'impugnatura.
Pulii e oliai la lama, quindi decisi con Dorcas cosa conveniva fare. Le parlai del sogno che avevo fatto la notte prima di incontrare Baldanders e il dottor Talos, poi le spiegai che avevo sentito la voce dell'ondina mentre lei e Jolenta dormivano e le ripetei quello che mi aveva detto.
— Pensi che sia ancora là? Eri laggiù, quando hai ritrovato la tua spada. Se fosse stata sul fondo, saresti riuscito a vederla?
Scossi il capo. — Penso che non ci sia più. Si è ferita, non so come, mentre cercava di uscire dal fiume per trattenermi, e il pallore della sua pelle mi fa pensare che non rimanga mai a lungo in acque meno profonde di quelle del Gyoll, sotto il sole di una giornata tersa. Comunque, anche se fosse stata là, non penso che sarei riuscito a vederla... l'acqua era troppo torbida e in movimento.
Mai Dorcas mi era sembrata più incantevole che in quel momento, seduta a terra con il mento posato sul ginocchio. Restò a lungo in silenzio, come immersa nella contemplazione delle nuvole a oriente, tinte di ciliegia e di fuoco dalla perenne, misteriosa alba. Infine disse: — Doveva volerti moltissimo.
— Per fuoriuscire tanto dall'acqua? Penso che prima di diventare tanto immensa abbia vissuto sulla terraferma e per un istante deve aver dimenticato che non le è più possibile tornarvi.
— Ma ha risalito a nuoto il lurido Gyoll e poi questo fiumiciattolo. Sicuramente sperava di riuscire a prenderti mentre lo attraversavamo, ma in seguito si è resa conto di non poter oltrepassare la barena e ti ha chiamato. In generale, non deve essere stato un viaggio molto gradevole per un essere avvezzo a nuotare sotto le stelle.
— Allora tu pensi che dicesse la verità?
— Quando io ero rimasta con il dottor Talos e tu eri sparito, lui e Jolenta mi dicevano continuamente che ero una sempliciotta, perché credevo a tutto quello che mi veniva detto lungo la strada, oltre che a tutto quanto dicevano loro due e Baldanders. Comunque, io sono convinta che anche i bugiardi più famosi dicano la verità più spesso che le menzogne. È molto più semplice! Se la storia del tuo salvataggio non era vera, per quale motivo avrebbe dovuto raccontartela? Poteva solo spaventarti di più, quando ci avessi riflettuto. E se lei non nuota fra le stelle, perché dirlo? Ma qualcosa non ti convince, lo capisco benissimo. Di cosa si tratta?
Non intendevo parlarle del mio incontro con l'Autarca, così risposi: — Poco tempo fa ho visto un'illustrazione... in un libro... raffigurante un essere che vive nell'abisso. Si trattava di una donna alata. Le sue non erano ali di uccello, bensì immensi piani di una sostanza sottile e pigmentata. Ali che potevano muoversi con facilità nella luce delle stelle.
Dorcas mi fissò incuriosita. — L'hai visto nel tuo libro marrone?
— No, in un altro, ma ora non l'ho qui con me.
— Comunque, questo mi fa ricordare che avevamo deciso di consultare il tuo libro marrone a proposito del Conciliatore. Ce l'hai ancora?
L'avevo, e lo presi. Era bagnato, perciò lo aprii e lo sistemai in modo che il sole battesse sulle pagine, agitate dalle brezze di Urth. I fogli iniziarono a girare dolcemente e le immagini degli uomini e delle donne e dei mostri attrassero la mia attenzione, fra un discorso e l'altro, e in tal modo si impressero nella mia mente, dove sono tuttora. I miei occhi captarono anche qualche frase... e persino brevi brani, che luccicavano e sbiadivano a mano a mano che la luce li colpiva e li abbandonava: «guerriero privo di anima!», «giallo lucido», «per noyade». E più avanti: «Questi tempi sono antichi quanto il mondo.» «L'Inferno non ha limiti e non è circoscritto; dove noi viviamo è l'Inferno e dove è l'Inferno, là noi dobbiamo essere.»
— Non lo vuoi leggere, adesso? — domandò Dorcas
— No, prima voglio sapere che cosa è successo a Jolenta.
— Non lo so. Stavo dormendo e sognavo... il solito sogno. Sono entrata in un negozio di giocattoli. Le pareti erano coperte da scaffali colmi di bambole e nel mezzo del pavimento c'era un pozzo, con altre bambole. Rammento di aver pensato che la mia creatura fosse troppo piccola per quelle bambole; ma erano talmente belle, e io non ne avevo più possedute da quando ero piccolina, così ho deciso di comperarne una e di tenerla per la mia creatura, e nel frattempo io avrei potuto tirarla fuori ogni tanto, guardarla e magari appoggiarla davanti allo specchio della mia camera. Ho scelto la più bella, una di quelle posate sulla vera del pozzo, ma quando il negoziante l'ha presa per darmela, ho visto che si trattava di Jolenta, e in quell'istante la bambola gli è caduta dalle mani. L'ho vista cadere a grande profondità verso l'acqua nera e mi sono svegliata. Logicamente, mi sono voltata per sincerarmi che stesse bene...
— E l'hai trovata in un lago di sangue.
Dorcas assentì e i suoi capelli d'oro chiaro luccicarono nel sole. Allora ti ho chiamato, due volte... e poi ti ho visto laggiù, vicino alla barena, e quell'essere è uscito dall'acqua per prenderti.
— Non c'è motivo perché tu impallidisca tanto — la rassicurai. — Jolenta è stata morsa da un animale, è chiaro. Non so di quale tipo si trattasse, ma a giudicare dal morso doveva essere piuttosto piccolo, e non più temibile di tutti gli altri animaletti dai denti appuntiti e dal temperamento iroso.
— Severian, rammento di aver sentito che più a nord vivono i pipistrelli-sanguisuga. Quando ero bambina, qualcuno me ne parlava per intimorirmi. E poi, quando ero più grandicella, penetrò in casa un banale pipistrello. Qualcuno lo uccise e io domandai a mio padre se si trattasse di un pipistrello-sanguisuga, e se esistesse veramente un animale del genere. Lui mi rispose che quelle bestie vivevano davvero, ma molto più a nord, nelle fumanti foreste del centro del mondo. Morsicavano le persone addormentate e gli animali che pascolavano, durante la notte, e avevano la lingua avvelenata, in modo che le ferite provocate dai loro denti continuassero a sanguinare.
Dorcas si fermò, guardando in mezzo alle piante. — Mio padre mi disse che la città si era estesa in continuazione verso nord, lungo il fiume, a partire da quel piccolo villaggio autoctono sorto là dove il Gyoll si getta nel mare che le aveva dato origine. Secondo lui sarebbe stato terribile quando avesse raggiunto la regione dove i pipistrelli-sanguisuga volano e si appoggiano sugli edifici abbandonati. Deve essere già tremendo per gli abitanti della Casa Assoluta. Non possiamo essere troppo lontani.
— L'Autarca ha tutta la mia comprensione — dissi. — Ma non penso di averti mai sentita parlare tanto dettagliatamente del tuo passato. Rammenti tuo padre, adesso? E la casa in cui venne ucciso quel pipistrello?
Lei si levò in piedi e nonostante si sforzasse di apparire coraggiosa, mi accorsi che stava tremando. — I ricordi sono sempre più chiari ogni mattina, dopo i sogni. Ma ora, Severian, dobbiamo andare via. Jolenta è molto debole, necessita di cibo e acqua pura da bere. Non possiamo fermarci qui.
Anch'io avvertii una fame terribile. Rimisi il libro nella borsa e rinfoderai la spada appena oliata. Dorcas rifece il suo fagottino.
Ci incamminammo, guadando il fiume molto più a monte della barena di sabbia. Jolenta non era in grado di camminare da sola, così la dovevamo sorreggere entrambi. Il suo viso era stanco e, nonostante avesse da poco ripreso i sensi, parlava raramente.
Quando lo faceva, profferiva solo una o due parole. In quel momento notai che le sue labbra erano molto sottili e quello inferiore aveva addirittura perduto la compattezza, pendendo lontano dai denti e rivelando le gengive livide. Mi sembrava che tutto il suo corpo, il giorno precedente tanto generoso, si fosse rilasciato come cera. Invece di far sembrare Dorcas una bambina, appariva come un fiore appassito, la fine dell'estate di fronte alla primavera di Dorcas.
Mentre avanzavamo cosi, lungo un angusto sentiero impolverato, in mezzo alle canne da zucchero già più alte di me, mi sorpresi a pensare che l'avevo veramente desiderata molto, nel breve tempo che avevo passato con lei. La memoria, tanto precisa e vivida da vincere ogni oppiaceo, mi faceva rivedere la donna che io credevo di aver visto per la prima volta quando insieme a Dorcas avevo aggirato il boschetto e avevo scoperto il palcoscenico del dottor Talos. Come mi era sembrato strano vederla perfetta il giorno dopo, quando ci eravamo avviati verso nord nel mattino più luminoso che io ricordi.
Si dice che amore e desiderio non siano altro che cugini, e io avevo verificato tale affermazione fino a quando non mi ritrovai a camminare con il braccio inerte di Jolenta intorno al collo. Ma la realtà è un'altra. O meglio, l'amore per le donne era l'aspetto oscuro di un ideale femminile che avevo coltivato sognando Valeria, Thecla e Agia, Dorcas e Jolenta e l'amante di Vodalus, con il suo volto ovale e la sua voce carezzevole, quella che ormai sapevo essere la sorellastra di Thecla, Thea. Ma mentre camminavo in mezzo alle muraglie di canne, dopo che il desiderio se ne era andato e io riuscivo a guardare Jolenta solo con pietà, capii che, nonostante avessi creduto di desiderare solo la sua carne rosea e la goffa grazia dei suoi movimenti, l'amavo.
XXIX
I MANDRIANI
Per gran parte della mattina avanzammo in mezzo alle canne senza incontrare nessuno. Jolenta non si riprese e non peggiorò, per quanto riuscivo a vedere; però avevo la sensazione che la fame e lo sforzo di sorreggerla, insieme alla crudele luce del sole, si facessero sentire, perché per due o tre volte, voltandomi verso di lei, ebbi l'impressione di non vedere affatto Jolenta ma un'altra donna, che ricordavo ma che non riuscivo a identificare. Quando voltavo il capo per guardare meglio, questa debole impressione spariva del tutto.
Camminavamo quasi senza profferire parola. Quella fu l'unica volta che Terminus est mi parve pesante e scomoda da portare e la mia spalla si era irritata sotto il peso della bandoliera.
Tagliai dei pezzi di canna e li mangiammo, nutrendoci del loro succo dolce. Jolenta aveva sempre sete e dal momento che non riusciva a camminare da sola né a sorreggere il suo pezzo di canna, eravamo costretti a fare continue soste. Era strano vedere come quelle gambe lunghe e così ben modellate, con le caviglie sottili e le cosce generose, fossero tanto inutili.
Alla fine della giornata raggiungemmo il margine della vera pampa, il mare d'erba. Lì si innalzavano ancora alcune piante, ma erano tanto poche che ognuna di loro era in vista di altre due o tre al massimo. A ciascun tronco era legato il corpo di una bestia predatrice, con le zampe anteriori allargate come braccia e tenute strette da cinghie di cuoio non conciato. Si trattava soprattutto di tigri maculate comuni in quelle zone, ma vidi anche atroxes, con i capelli simili a quelli dell'uomo, e smilodonti dai denti a sciabola. La maggior parte di loro era ridotta allo scheletro, alcuni invece erano ancora vivi ed emettevano dei suoni che aiutano a tenere lontani gli altri atroxes, le tigri e gli smilodonti, in modo da salvaguardare il bestiame.
Per noi tre il pericolo principale era proprio il bestiame. I tori caricano qualsiasi cosa vedano avvicinarsi, perciò eravamo costretti a tenerci lontani da tutte le mandrie che avvistavamo e a tenerci sotto vento. In quei momenti dovevo lasciare Dorcas a sorreggere come poteva il peso di Jolenta per precederle, avvicinandomi maggiormente alle bestie. A un certo punto dovetti balzare velocemente di lato e mozzare la testa a un toro che si era avventato su di noi. Accendemmo un fuoco con dell'erba secca e arrostimmo una parte della carne.
La volta seguente, mi sovvenni dell'Artiglio e di come avesse posto fine all'attacco degli uomini-scimmia. Lo tolsi dallo stivale e il feroce toro nero mi si accostò adagio, venendo a strofinarsi contro la mia mano. Gli misi Jolenta sul dorso e dissi a Dorcas di sorreggerla; gli camminai vicino e tenni la gemma alla portata del suo sguardo.
Uno degli ultimi smilodonti che incontrammo era legato al primo albero davanti a noi: era ancora vivo. Ebbi paura che intimorisse il toro, ma quando gli passammo accanto, sentii i suoi occhi fissi sulla mia schiena, occhi gialli grandi come uova di piccione. La mia lingua era grossa come la sua a causa della sete. Affidai a Dorcas la gemma e mi avvicinai all'animale per tagliargli le corde, convinto che mi avrebbe comunque attaccato. Cadde a terra, troppo indebolito per reggersi sulle zampe, e io, che non avevo acqua da offrirgli, non potei fare altro che allontanarmi.
Dopo mezzogiorno vidi un uccello predatore di carogne volteggiare in alto sulle nostre teste. Pare che avvertano l'odore della morte e mi venne in mente che a volte, mentre gli artigiani erano troppo occupati nella camera degli interrogatori, noi apprendisti eravamo usciti a lanciare sassi contro quelli che si erano appollaiati sul muro in rovina, affinché la Cittadella non acquistasse una reputazione peggiore di quella che già aveva. Aborrivo l'idea che Jolenta potesse morire e avrei dato non so cosa per poter avere un arco e cercare di abbattere quell'uccello: ma non l'avevo ed era inutile disperarsi.
Dopo un tempo che mi parve interminabile, al primo uccello se ne aggiunsero altri due, molto più piccoli, e dal colore vivace delle loro teste, visibile anche a quella distanza, capii che erano cathartidae. Di conseguenza il primo, che aveva un'apertura alare tre volte superiore alla loro, doveva essere un teratornis di montagna, la specie che si dice attacchi gli scalatori straziando le loro facce con gli artigli avvelenati e colpendoli con le enormi ali fino a farli precipitare. Di tanto in tanto i due volatili più piccoli gli si avvicinavano troppo e il teratornis li aggrediva. Allora sentivamo un urlo stridulo scendere dai bastioni del loro castello d'aria. A un certo punto, spinto da un macabro impulso, invitai gli uccelli a raggiungerci facendo dei gesti. Si gettarono tutti e tre in picchiata; io brandii la spada e rinunciai a fare ulteriori segnali di richiamo.
Quando l'orizzonte occidentale raggiunse il sole, arrivammo a una bassa costruzione, poco più di una capanna fatta di zolle. Davanti a essa sedeva un uomo magro e solido, che indossava dei gambali di pelle; stava bevendo maté e fingeva di guardare i colori delle nuvole. In realtà doveva averci notato prima di noi, perché era piccolo e scuro e si mimetizzava bene con la casa bruna, mentre noi eravamo stagliati contro il cielo.
Non appena lo vidi ritirai l'Artiglio, anche se non sapevo come avrebbe reagito il toro. Ma l'animale non fece assolutamente nulla e continuò a procedere adagio, con le due donne sul dorso. Quando raggiungemmo la casa, le adagiai a terra: il toro sollevò la testa e fiutò il vento, poi mi fissò con un occhio. Gli mostrai l'erba ondulata, sia per fargli capire che non avevo più bisogno di lui, sia per mostrargli che la mia mano era vuota. Si volse su se stesso e se ne andò al trotto.
Il mandriano staccò le labbra dalla cannuccia di peltro. — Quello era un bue — disse.
Annuii. — Ci serviva per trasportare questa povera donna ammalata, così l'abbiamo preso in prestito. È tuo? Speravamo che non ti avrebbe dato fastidio, e comunque non gli abbiamo fatto niente di male.
— No, no. — Il mandriano fece un gesto vago. — L'ho detto solo perché vedendovi da lontano avevo creduto trattarsi di un destriero. La mia vista non è più quella di una volta. — Ci spiegò come un tempo fosse eccellente. — Ma, come hai detto, era un bue.
Annuii ancora, insieme a Dorcas.
— Ecco cosa vuol dire invecchiare. Ero pronto a leccare la lama di questo coltello — commentò il mandriano, battendo la mano sull'impugnatura di metallo che gli spuntava dall'alta cintura, — e a puntarla verso il sole per giurare di aver visto qualcosa fra le gambe del bue. Ma se non fossi tanto stupido, saprei che nessuno riesce a cavalcare un toro delle pampas. La pantera rossa ci riesce, ma solo tenendosi aggrappata con i suoi artigli, e a volte muore anche lei. Sicuramente si trattava di una poppa che il bue ha ereditato dalla madre. La conoscevo, e lei ne aveva una.
Gli spiegai che venivo dalla città e che non sapevo niente della campagna.
— Ah — disse il mandriano, succhiando il maté. — E io sono ancora più ignorante di te. Qui intorno tutti, a parte me, sono ignoranti eclettici. Sapete chi sono gli eclettici? Non sanno nulla... come può una persona imparare qualcosa da simili vicini?
— Ti prego, permettici di portare questa donna ammalata in casa e di sdraiarla — disse Dorcas. — Ho paura che stia per morire.
— Vi ho già detto che io non so niente. Domandalo a quest'uomo... che riesce a guidare un bue, stavo per dire un toro, come se si trattasse di un cagnolino.
— Ma lui non è in grado di aiutarla! Tu sì.
Il mandriano mi guardò di sottecchi: era certamente convinto che ero stato io a domare il toro e non Dorcas. — Sono spiacente per la vostra amica — disse, — che una volta doveva essere bellissima a quanto pare. Ma anche se resto qui a chiacchierare con voi, ho anch'io un amico che in questo momento è sdraiato là dentro. Voi temete che la vostra compagna stia per morire, io so che sta morendo il mio, e vorrei che potesse andarsene senza essere disturbato.
— Capiamo benissimo, ma non lo disturberemo. Anzi, probabilmente saremo in grado di aiutarlo.
Il mandriano fissò Dorcas, poi me, poi ancora Dorcas. — Siete gente strana... che cosa so io? Niente più di quegli eclettici ignoranti. Va bene, entrate pure, ma non fate rumore e rammentate che siete miei ospiti.
Si alzò e aprì la porta; era tanto bassa che per passare dovetti chinarmi. L'interno era costituito da una sola stanza buia e pregna di fumo. Su un pagliericcio davanti al fuoco era steso un uomo molto più giovane e alto del nostro ospite. Aveva la stessa carnagione scura, ma era esangue e le guance e la fronte erano sporche di terra. Non c'erano altri giacigli, così stendemmo sul pavimento la logora coperta di Dorcas e vi adagiammo Jolenta. Per un istante aprì gli occhi. Erano privi di coscienza e il verde brillante di un tempo era sbiadito come uno straccio lasciato al sole.
Il mandriano scosse il capo e sussurrò: — Non vivrà più a lungo di quell'eclettico ignorante di Manahen. Forse meno.
— Ha bisogno d'acqua — disse Dorcas.
— Là dietro, nel barile. Vado a prenderla.
Quando la porta si richiuse alle spalle dell'uomo, presi l'Artiglio. La luce azzurra che emanò era tanto intensa che temetti potesse penetrare le pareti. Il giovane sdraiato sul pagliericcio respirò profondamente, quindi fece un lungo sospiro. Mi affrettai a ritirare la gemma.
— A lei non è servito — disse Dorcas.
— Forse l'acqua la rianimerà. Ha perso tanto sangue.
Dorcas si piegò a lisciare i capelli di Jolenta. Si staccavano come quelli delle vecchie e dei malati di febbre alta e molti restarono attaccati al palmo umido di Dorcas, ben visibili nonostante la luce bassa. — Sono convinta che sia sempre stata ammalata — commentò Dorcas. — Da quando la conosco. Il dottor Talos deve averle dato qualcosa che l'ha fatta stare meglio per un po' di tempo, ma adesso che l'ha scacciata... lei pretendeva troppo, così lui si è vendicato.
— Non posso credere che sia stato tanto crudele.
— Nemmeno io ci riesco. Ascolta, Severian: lui e Baldanders faranno certamente qualche sosta per dare una rappresentazione e osservare il territorio. Forse riusciremo a ritrovarli.
— Osservare? — Dovevo apparire molto stupito.
— Io ho sempre avuto la sensazione che loro girovagassero non solo per guadagnare dei soldi, ma anche per scoprire che cosa stava succedendo nel mondo. Una volta il dottor Talos lo ha persino ammesso, parlando con me, ma non ho mai capito che cosa stessero cercando.
Il mandriano comparve con la zucca piena d'acqua. Sollevai Jolenta e la feci sedere e Dorcas le avvicinò la zucca alle labbra. L'acqua traboccò e bagnò il vestito lacero di Jolenta, ma un po' riuscì a scenderle in gola e quando la zucca fu riempita una seconda volta lei riuscì a deglutire. Chiesi al mandriano se sapeva dove fosse il lago Diuturna.
— Io sono solo un ignorante — rispose. — Non sono mai andato tanto lontano. Ho sentito dire che si trova da qualche parte... — Indicò. — Verso nord-est. Siete diretti là?
Assentii.
— Allora dovrete attraversare un brutto posto, forse molti brutti posti... certamente passerete dalla città di pietra.
— Qui vicino c'è una città?
— Sì, ma non è abitata. Gli eclettici ignoranti del luogo sostengono che qualsiasi direzione un uomo prenda la città di pietra si muove per aspettarlo lungo la strada. — Il mandriano rise sommessamente, quindi tornò serio. — Non è vero. Ma la città di pietra modifica il modo di avanzare degli animali che trasportano un uomo, così una persona se la ritrova davanti quando è convinto di essere riuscito a evitarla. Capite? Penso di no.
Ripensai ai Giardini Botanici e annuii. — Capisco. Vai avanti.
— Ma se siete diretti a nord-est, la dovrete attraversare per forza. Non modificherà nemmeno il vostro percorso. Alcuni non vedono altro che muri crollati. Ho sentito dire che delle persone vi hanno scoperto dei tesori. Altri fanno ritorno con delle nuove storie e altri ancora non tornano affatto. Nessuna di queste due donne è ancora vergine, penso.
Dorcas soffocò un'esclamazione. Io scossi il capo.
— Bene, perché sono le vergini di solito a non fare ritorno. Vi consiglio di attraversarla di giorno, con il sole sopra la spalla destra al mattino e in seguito nell'occhio sinistro. Se sopraggiunge la notte, non fermatevi e non fate deviazioni di lato. Avanzate diritti verso le stelle dell'Ihuaivulu, quando iniziano a brillare.
Annuii. Stavo per rivolgergli delle altre domande quando il malato aprì gli occhi e si mise a sedere. La coperta cadde e io notai che una fascia sporca di sangue gli avvolgeva il petto. Sobbalzò, mi guardò e urlò qualcosa. Immediatamente la fredda lama del mandriano premette contro la mia gola. — Non ti farà alcun male — disse questi al malato. Parlò nel suo stesso dialetto, ma lo fece lentamente, così riuscii a comprenderlo. — Non penso che ti abbia riconosciuto.
— Padre, ti dico che è il nuovo littore di Thrax. Ne hanno richiesto uno e i clavigeri dicono che sta per arrivare. Ammazzalo! Ucciderà tutti quelli che sono ancora vivi.
Sentirlo nominare Thrax, tanto distante, mi meravigliò. Mi sarebbe piaciuto interrogarlo. Penso che sarei riuscito a discutere con lui e con suo padre in maniera ragionevole, ma Dorcas colpì il vecchio alla testa con la zucca... un colpo inutile, decisamente femminile che servì solo a spaccare la zucca. Il mandriano reagì cercando di colpirla con il coltello uncinato a doppio taglio, ma io gli fermai il braccio e glielo ruppi, quindi spaccai il coltello sotto il tacco dello stivale. Il figlio, Manahen, cercò di mettersi in piedi; ma l'Artiglio, che gli aveva ridato la vita, non gli aveva restituito anche le forze, e Dorcas lo fece cadere riverso sul pagliericcio.
— Moriremo di fame — disse il mandriano. Il volto scuro era contratto per lo sforzo di non piangere.
— Ti sei preso cura di tuo figlio — gli dissi. — Fra poco lui sarà in grado di prendersi cura di te. Cosa gli è successo?
Nessuno dei due volle rispondere.
Curai l'osso rotto e lo steccai. Quella notte io e Dorcas mangiammo e dormimmo all'aperto, dopo aver avvertito i due uomini che non avremmo esitato a ucciderli se avessimo sentito la porta aprirsi o se avessero fatto del male a Jolenta. La mattina seguente, mentre loro dormivano, toccai con l'Artiglio il braccio fratturato del mandriano. Non molto distante dalla casa c'era un destriero legato a un picchetto; lo montai e riuscii a prenderne un altro per Dorcas e Jolenta. Mentre lo conducevo verso la casupola, vidi che i muri di zolle erano diventati verdi durante la notte.
XXX
RIAPPARE HILDEGRIN
Nonostante le parole del mandriano, speravo di imbattermi sulla strada in un luogo come Saltus, nel quale avremmo potuto trovare acqua pura e pagarci vitto e alloggio con qualche aes. Invece, arrivammo in quello che potrei definire a malapena un avanzo di città. L'erba ruvida cresceva fra le pietre del vecchio lastricato, che visto da lontano non si distingueva dalla pampa circostante. In mezzo all'erba giacevano le colonne cadute, simili a tronchi d'albero di una foresta devastata da un uragano terribile; qualche colonna si ergeva ancora, spezzata e dolorosamente bianca sotto il sole. Le lucertole dagli splendenti occhi neri e dalla schiena crestata erano immobili nella luce. Gli edifici non erano altro che ammassi sui quali cresceva l'erba alta ondeggiante nel vento.
Non vidi alcun motivo per modificare il nostro percorso, perciò avanzammo verso nord-ovest incitando i destrieri. A un certo punto notai le montagne che si ergevano davanti a noi. Erano incorniciate da un arco in rovina e non apparivano niente più di una pallida linea azzurra all'orizzonte; però esistevano, come esistevano i nostri clienti impazziti al terzo livello della segreta, sebbene non salissero mai un solo scalino e non uscissero nemmeno dalle celle. Il lago Diuturna si trovava da qualche parte in mezzo a quelle montagne. Anche Thrax era là; e le pellegrine, a quanto avevo saputo, vagavano fra quelle cime e quei burroni curando i feriti dell'interminabile guerra contro gli asciani. Anche la guerra era combattuta fra quei monti. Là, centinaia di migliaia di uomini morivano per conquistare un valico.
Ma noi ci trovavamo in una città nella quale risuonava solo la voce del corvo. L'acqua che avevamo portato con noi era quasi finita; Jolenta si era ulteriormente indebolita e probabilmente, se non fossimo riusciti a trovare dell'altra acqua prima di sera, sarebbe morta. Proprio quando Urth iniziava a rotolare attraverso il sole, arrivammo a una mensa sacrificale spezzata, il cui bacino conteneva ancora dell'acqua. Era stagnante e aveva un odore immondo, ma eravamo talmente presi dalla disperazione che permettemmo a Jolenta di berne qualche sorso. Vomitò immediatamente. La rotazione di Urth intanto fece apparire la luna, che aveva ormai superato il plenilunio, la cui pallida luce verdognola sostituì quella del sole.
Un semplice fuoco da campo ci sarebbe sembrato un miracolo. Quello che trovammo fu più strano ma meno sorprendente. Dorcas mi additò un punto sulla sinistra. Guardai e dopo un istante pensai di aver visto una meteora. — È una stella cadente — dissi. — Non ne hai mai viste? A volte cadono a sciami.
— No! È una casa... non vedi? Cerca un punto buio contro il cielo. Deve avere il tetto piatto, e sopra c'è qualcuno con un acciarino e una selce.
Stavo per fare un commento sulla sua fantasia quando un bagliore rosso, non più grande della capocchia di uno spillo, comparve nel luogo in cui erano cadute le scintille. Due respiri dopo fece la sua apparizione una minuscola lingua di fiamma.
Non era distante, ma il buio e le pietre frantumate sulle quali stavamo avanzando ci facevano sembrare il tragitto molto più lungo e quando arrivammo alla costruzione, il fuoco era abbastanza vivo da permetterci di distinguere tre figure accovacciate intorno a esso. — Ci serve aiuto — urlai. — Questa donna sta morendo.
Le tre figure sollevarono la testa e la voce acuta di una vecchia chiese: — Chi parla? Sento una voce d'uomo ma non vedo nessuno. Chi sei?
— Sono qui — gridai in risposta, gettando indietro il manto di fuliggine e il cappuccio. — Sulla tua sinistra. Sono vestito di scuro, ecco tutto.
— Sì... sì. Chi sta morendo? Non la piccolina con i capelli chiari... quella più alta, con la chioma d'oro rosso. Abbiamo del vino e un fuoco, ma niente di più. Girate dietro la casa, troverete una scala.
Portai i nostri animali dietro l'angolo dell'edificio, come mi era stato detto. I muri di pietra celarono la luna ancora bassa e ci lasciarono nell'oscurità più completa. Inciampai sui rozzi scalini che probabilmente non erano altro che pietre ammucchiate prese dalle strutture cadute lì intorno. Impastoiai i due destrieri e feci salire Jolenta sul tetto. Dorcas ci precedette, per trovare la strada a tentoni e per avvertirmi degli eventuali pericoli.
Il tetto in realtà non era piatto e anzi, possedeva una tale pendenza che a ogni passo temevo di cadere. La superficie, dura e irregolare, pareva fatta di tegole... una delle quali a un certo punto si staccò, scricchiolando e rotolando sulle altre fino a quando cadde nel vuoto e si frantumò sul lastricato irregolare, là sotto.
Quando ero un giovane apprendista, troppo piccolo per poter ricevere incarichi difficoltosi, venni inviato alla torre delle streghe per consegnare una lettera, al di là del Vecchio Cortile. (In seguito scoprii che c'era una valida ragione per mandare solo bambini impuberi a consegnare i messaggi resi necessari dalla vicinanza alle streghe.) Adesso so quale orrore ispirasse la nostra torre non solo agli abitanti del quartiere ma anche a tutti gli altri residenti della Cittadella, e la mia paura mi appare incredibilmente ingenua; ma allora era sincera, per un bambinetto goffo quale ero. Avevo sentito raccontare dagli apprendisti più grandi delle storie terrificanti e avevo constatato che bambini senza dubbio più coraggiosi di me erano spaventati. In quella torre, la più sottile dell'intera Cittadella, di notte risplendevano strane luci colorate. Le urla che sentivamo nei dormitori non provenivano da una stanza sotterranea come la nostra camera degli interrogatori, ma dai piani più alti; e noi sapevamo che erano le streghe stesse a gridare, non i loro clienti, perché loro non avevano clienti nel senso che noi attribuivamo a quel termine. Quelle urla non erano ululati di agonia o di pazzia.
Mi era stato detto di lavarmi le mani per non sporcare la busta e, mentre mi avviavo in mezzo alle pozzanghere d'acqua ghiacciata che costellavano il cortile, mi vergognavo perché erano umide e rosse. La mia fantasia aveva immaginato una strega incredibilmente dignitosa e sprezzante, che mi avrebbe senz'altro punito per aver osato consegnarle la lettera con le mani rosse e che mi avrebbe fatto tornare dal Maestro Malrubius con una nota di biasimo.
Ero davvero molto piccolo e dovetti spiccare un salto per arrivare al picchiotto. Il rumore delle mie suole sottili sul gradino logoro mi è rimasto impresso nella memoria.
— Sì? — La faccia che mi fissava era poco più in alto della mia. Era una di quelle facce che fanno pensare contemporaneamente alla bellezza e alla malattia, straordinaria fra le centinaia di migliaia di facce che ho visto. La strega mi apparve vecchia: doveva avere all'incirca vent'anni; ma non era alta e aveva il portamento curvo della vecchiaia. Il suo viso era talmente bello ed esangue da apparire come una maschera d'avorio scolpita da un grande artista.
Porsi la lettera, senza profferire parola.
— Seguimi — disse lei. Era quello che avevo temuto e dopo essere state pronunciate quelle parole mi apparvero inevitabili come il susseguirsi delle stagioni.
Entrai in una torre molto diversa dalla nostra. Quella dei torturatori era massiccia e opprimente, costruita con lastre di metallo talmente connesse che con il passare del tempo avevano costituito un unico corpo, e i piani più bassi erano afosi e grondanti d'umidità. Nella torre delle streghe niente appariva solido, e in realtà ben poche cose lo erano. In seguito, il Maestro Palaemon mi disse che quella torre era una delle più antiche dell'intera Cittadella, ed era stata edificata quando era in uso la tendenza a imitare con materiali inanimati la fisiologia umana; perciò erano stati usati scheletri d'acciaio per sorreggere una trama di sostanze più inconsistenti. Con il trascorrere dei secoli, tale scheletro si era completamente corroso... e la struttura che gli stava intorno era sostenuta solamente dalle riparazioni effettuate di generazione in generazione. Saloni immensi erano separati da muri il cui spessore non superava quello dei drappi; nessun pavimento era pianeggiante, nessuna scala era diritta; mi sembrava che ogni ringhiera e ogni balaustrata che toccavo potesse restarmi in mano. Le pareti erano colme di segni gnostici fatti con il gesso bianco, verde e porpora, ma i mobili erano molto scarsi e l'aria pareva più fredda che all'esterno.
Dopo aver salito numerose rampe di scale e una scala a pioli ottenuta con i tronchi sottili e non privati della corteccia di una pianta odorosa, venni presentato a una vecchia, seduta sull'unica sedia che avevo visto là dentro. Era intenta a guardare qualcosa che sembrava un paesaggio artificiale abitato da animali senza pelo e deformi attraverso il piano di vetro di un tavolo. Le consegnai la lettera e venni condotto via; ma per un istante mi aveva guardato e il suo volto, come quello della giovane-vecchia che mi aveva accompagnato da lei, era rimasto impresso nella mia memoria.
Ho raccontato tutto questo perché mentre adagiavo Jolenta sulle tegole vicino al fuoco mi sembrava che le donne raggomitolate vicino alle fiamme fossero le stesse di quell'episodio. Non era possibile: la vecchia a cui avevo consegnato la lettera doveva essere già morta e la giovane (se viveva ancora) doveva essere mutata tanto da non riuscire più a riconoscerla, come me. Eppure le facce che si voltarono nella mia direzione erano quelle che avevo fissato nella mia memoria. Forse esistono solo due streghe, al mondo, e rinascono in continuazione.
— Che cos'ha quella donna? — domandò la più giovane. Io e Dorcas glielo spiegammo, come potevamo.
Prima ancora che avessimo terminato di parlare, la più vecchia appoggiò sulle sue ginocchia la testa di Jolenta e iniziò a riversarle in gola il contenuto di una bottiglia d'argilla. — Se fosse puro le farebbe male — spiegò. — Ma questo è composto per tre quarti d'acqua. Dal momento che non desideri la sua morte, sei stato fortunato a imbatterti in noi. Non so se lo stesso vale per lei.
La ringraziai e chiesi dove fosse andata la terza persona che prima era seduta vicino al fuoco.
La vecchia fece un sospiro e mi guardò per un istante prima di rivolgere nuovamente l'attenzione su Jolenta.
— Eravamo solo noi due — rispose la più giovane. — Hai visto qualcun altro?
— Sì, e molto bene, nella luce del fuoco. Tua nonna, se si tratta di tua nonna, ha sollevato la testa e mi ha rivolto la parola. Tu e la terza persona che era con voi avete alzato il capo e poi l'avete riabbassato.
— Lei è la Cumana.
Quel nome non mi era sconosciuto, ma per un istante non ricordai niente al riguardo; e il volto della donna più giovane, immobile come quello di un'oreade dipinta, non mi aiutava affatto.
— La veggente — disse Dorcas. — E tu chi sei?
— La sua discepola. Il mio nome è Merryn. Forse è significativo che voi, che siete in tre, abbiate visto tre persone vicino al fuoco mentre noi, che siamo in due, dapprima avevamo scorto solo due di voi. — La giovane guardò la Cumana come per ottenere il suo consenso, quindi, come se l'avesse avuto, tornò a voltarsi verso di noi; eppure in apparenza non si erano scambiate nessun cenno.
— Sono del tutto sicuro di aver visto una terza persona, più alta di voi — ribattei.
— Questa è una strana sera e coloro che volano nell'aria notturna potrebbero aver deciso di assumere temporaneamente sembianze umane. Bisogna vedere se tale potenza intenda mostrarsi anche a voi.
L'espressione dei suoi occhi scuri e del suo viso sereno era tale che le avrei certamente creduto se Dorcas non mi avesse suggerito con un movimento quasi impercettibile della testa che la terza persona poteva essersi nascosta alla nostra vista ritirandosi nella parte opposta del tetto.
— Forse sopravviverà — disse la Cumana, senza staccare gli occhi dalla faccia di Jolenta. — Anche se non vuole.
— È stato un bene per lei che voi due aveste tanto vino — commentai.
La vecchia non cascò nella trappola e rispose solo: — Sì, è stato un bene. Per te e forse anche per lei.
Merryn afferrò uno stecco e riattizzò il fuoco. — La morte non esiste.
Scoppiai a ridere, soprattutto per il sollievo sulla sorte di Jolenta. — I miei colleghi non la pensano così.
— I tuoi colleghi sbagliano.
Jolenta bisbigliò: — Dottore? — Era la prima volta che parlava, dal mattino.
— Adesso non ti serve più un medico — le disse Merryn. — Qui c'è una persona più esperta.
La Cumana sussurrò: — Sta cercando il suo amore.
— E non è l'uomo vestito di fuliggine, vero Madre? Avevo capito che era troppo banale per lei.
— Lui è solo un torturatore. Quello che la donna desidera è molto peggio.
Merryn assentì, poi si rivolse a noi: — So che non vorreste spostarla ancora, per questa notte, ma vi dobbiamo chiedere di farlo. Troverete cento luoghi più adatti per accamparvi dalla parte opposta delle rovine, e comunque per voi sarebbe pericoloso rimanere qui.
— C'è pericolo di morte? — domandai. — Eppure tu hai appena detto che la morte non esiste... perciò, se hai ragione, di che cosa dovrei aver paura? E se non hai ragione, come posso credere alle tue parole? — Tuttavia mi alzai per andarmene.
La Cumana sollevò il capo. — Merryn ha ragione — gracchiò. — Nonostante non lo sappia e parli a memoria come un uccello in gabbia. La morte è niente e per questo va temuta. Cosa si dovrebbe temere di più?
Risi di nuovo. — Non sono all'altezza di discutere con una saggia come te, e dal momento che ci avete offerto l'aiuto che vi era possibile darci, ce ne andremo, se è quello che desiderate.
La Cumana mi lasciò prendere Jolenta fra le braccia, poi disse: — Io non lo desidero, ma la mia discepola pensa ancora che l'universo sia ai suoi ordini, una specie di tavola sulla quale muovere i pezzi come meglio le aggrada. I Maghi reputano giusto annoverarmi nel loro numero, quando stendono il loro breve elenco, e perderei il mio posto se non sapessi che noi siamo solo dei piccoli pesci e dobbiamo seguire maree invisibili per non sfinirci senza trovare del cibo. Adesso avvolgi questa povera creatura e deponila vicino al mio fuoco. Quando questo luogo sarà fuori dall'ombra di Urth esaminerò nuovamente la sua ferita.
Restai in piedi sostenendo Jolenta; non riuscivo a decidere se andare o fermarmi. La Cumana appariva abbastanza amichevole, ma la sua metafora mi aveva sgradevolmente rammentato l'ondina; e mentre scrutavo il suo volto ero giunto a dubitare che si trattasse di una donna, ricordando troppo chiaramente le facce terribili dei cacogeni che si erano levati le maschere quando Baldanders si era avventato su di loro.
— Tu mi svergogni, Madre — disse Merryn. — Lo devo chiamare?
— Ci ha ascoltati e verrà da solo.
La Cumana aveva ragione. Avevo già avvertito lo scricchiolio delle tegole sotto gli stivali dalla parte opposta del tetto.
— Sei all'erta. Non credi che faresti meglio ad adagiare la donna come ti ho detto? Potresti afferrare la spada e difendere la tua amata, anche se non sarà necessario.
Mentre stava parlando vidi un cappello alto su una grossa testa e un paio di robuste spalle stagliarsi contro il cielo notturno. Deposi Jolenta vicino a Dorcas e sfoderai Terminus est.
— Non occorre — disse una voce bassa. — Non occorre, mio giovane amico. Mi sarei mostrato anche prima, per rinnovare la nostra conoscenza, ma non sapevo se la Castellana lo desiderava. Il mio e tuo padrone ti invia i suoi saluti. — Era Hildegrin.
XXXI
PURIFICAZIONE
— Puoi dire al tuo padrone che ho consegnato il messaggio — dissi.
Hildegrin sorrise. — E non hai un messaggio per me, armigero? Rammenta, io vengo dai penetrali delle querce.
— No — risposi. — Nessun messaggio.
Dorcas sollevò il capo. — Io ne ho uno. Un tale che ho incontrato nei giardini della Casa Assoluta mi ha detto che qualcuno avrebbe profferito queste parole e io avrei dovuto rispondergli: «Dopo che le foglie saranno cresciute, la foresta marcerà verso nord.»
Hildegrin avvicinò l'indice al naso. — Tutta la foresta? Ha detto proprio così?
— Mi ha detto la frase che ti ho ripetuto e niente altro.
— Dorcas — domandai io, — perché non me l'avevi detto?
— Non abbiamo praticamente avuto l'opportunità di parlare da soli, da quando ci siamo incontrati al crocevia. E poi, avevo capito che era pericoloso conoscere il messaggio e non vedevo alcun motivo per far ricadere tale pericolo su di te. A conferirmi tale incarico era stato l'uomo che aveva dato tutti quei soldi al dottor Talos. Ma il messaggio l'ha detto solo a me... lo so perché ho ascoltato la loro conversazione. Ha detto solo che era tuo amico.
— E non ti ha detto di riferirmelo?
Dorcas scosse il capo.
La risata gutturale di Hildegrin parve uscire dalle viscere della terra. — Bene, adesso non ha più importanza, giusto? Il messaggio è stato riferito e, per quanto mi riguarda, posso solo dire che avrei preferito che fosse passato ancora un po' di tempo. Ma qui siamo fra amici, a parte forse la ragazza ammalata, che comunque non penso sia in grado di ascoltarci; e del resto non ci capirebbe. Come hai detto che si chiama? Non riuscivo a sentirti molto bene, nascosto dall'altra parte del tetto.
— Non l'hai sentito perché non l'ho detto — precisai. — Il suo nome è Jolenta. — Mentre pronunciavo il suo nome la guardai e, alla luce del fuoco, capii che non si trattava più della bella donna che Jonas aveva amato.
— L'ha morsa un pipistrello? Da un po' di tempo sono diventati particolarmente forti. Anch'io sono stato morso da loro, un paio di volte. — Fissai bruscamente Hildegrin e lui aggiunse: — Oh, sì, ho avuto modo di vederla prima, giovane sieur, nello stesso modo in cui ho visto te e la piccola Dorcas. Non avrai creduto che tu e l'altra ragazza abbiate lasciato i Giardini Botanici da soli, vero? Parlavi di recarti a nord e di batterti a duello con un Septentrion. Ti ho visto combattere e decapitare quel tale... tra l'altro, ho collaborato alla sua cattura, perché ero convinto che venisse veramente dalla Casa Assoluta... ed ero in mezzo alla folla che guardava te sul palcoscenico, quella notte. Ti ho seguito fino all'incidente alla porta, il giorno dopo. Ho visto voi due e lei, sebbene ormai di lei non rimangano altro che i capelli, e forse neanche.
Merryn domandò alla Cumana: — Devo dirlo, Madre?
La vecchia assentì. — Se riesci, figlia.
— La donna era soggetta a un incantesimo che la rendeva bella. Adesso l'incantesimo sta svanendo velocemente a causa del troppo sangue perduto e delle fatiche sopportate. Domani mattina ne sarà rimasta solo qualche traccia.
Dorcas arretrò: — Una magia?
— La magia non esiste. Esiste solo la conoscenza, più o meno occulta.
Hildegrin stava guardando Jolenta con espressione pensierosa. — Non immaginavo che l'aspetto di una persona potesse mutare tanto. Potrebbe essere utile, è vero. La tua padrona è in grado di farlo?
— Potrebbe fare molto di più, se volesse.
Dorcas mormorò: — Ma come è possibile?
— Sono state immesse nel suo sangue delle sostanze estratte dalle ghiandole di certi animali che hanno modellato la sua figura. Le hanno conferito una vita sottile, seni grossi come meloni e così via. Probabilmente le hanno persino ingrossato le gambe. Una pulizia profonda e dei decotti risanatori le hanno ringiovanito il volto. Anche i denti sono stati puliti e alcuni sono stati sostituiti con false corone... una adesso è caduta, se guardi bene. I capelli sono stati tinti e resi più folti grazie a fili di seta colorata cuciti sulla cute. Sicuramente la maggior parte dei peli corporei è stata eliminata e almeno questo miglioramento resterà immutato. E soprattutto, le è stata promessa una grande bellezza, mentre era sotto incantesimo. Simili promesse vengono credute più intensamente di quanto possa fare un bambino, e la sua convinzione suscitava la convinzione altrui.
— Non si può fare più niente per lei? — domandò Dorcas.
— Io non ne sono in grado e la Cumana non fa niente di simile se non in casi estremi.
— Ma sopravviverà?
— Te l'ha detto anche la Madre... anche se lei forse non lo vorrebbe.
Hildegrin si schiarì la voce e sputò oltre il tetto. — Allora è tutto a posto. Per lei è stato fatto tutto il possibile. Adesso possiamo parlare del motivo per cui siamo qui. Come tu hai detto, Cumana, è un bene che siano arrivati loro tre. Mi hanno riferito il messaggio e sono amici del Signore delle Fronde, come me. L'armigero può aiutarmi a portare questo Apu-Punchau e, dal momento che i miei due compagni hanno perso la vita durante il viaggio, la sua collaborazione mi sarà gradita. Cosa ci proibisce di proseguire?
— Niente — mormorò la Cumana. — La stella è all'ascendente.
— Se dobbiamo aiutarvi a portare a termine qualcosa, non abbiamo forse il diritto di sapere di cosa si tratta? — chiese Dorcas.
— Si tratta di riportare in vita il passato — rispose Hildegrin con solennità. — Rituffarci nel tempo della trascorsa grandezza di Urth. Qualcuno viveva esattamente qui dove ci troviamo adesso e sapeva cose che potrebbero mutare tutto. Io ho intenzione di riesumarlo. Sarà il punto culminante, se lo posso dire, di una carriera già ritenuta piuttosto stupefacente negli ambienti informati.
— Hai intenzione di aprire la tomba? — domandai. — Sicuramente, anche servendosi dell'alzabo...
La Cumana allungò una mano per accarezzare la fronte di Jolenta. — Noi la chiamiamo tomba, ma non lo era. Era la sua casa.
— Ecco, vedi — spiegò Hildegrin, — ho fatto alcuni favori a questa Castellana, di tanto in tanto. Più di uno, se lo posso dire, e più di due. Alla fine ho pensato che fosse arrivato il momento di ricevere una ricompensa. Ho parlato della mia idea al Signore della Foresta, stai tranquillo. Ed eccoci qui.
— Mi sembra di aver capito che la Cumana servisse Padre Inire — dissi.
— Lei paga i suoi debiti — annunciò Hildegrin orgogliosamente. — La gente di un certo livello lo fa sempre. E non è necessario essere una veggente per capire che qualche amico dall'altra parte può essere utile, nel caso che quella parte esca vincitrice.
— Chi era Apu-Punchau? — domandò Dorcas alla Cumana. — E per quale motivo il suo palazzo è ancora integro mentre tutto il resto della città è in rovina?
Vedendo che la vecchia esitava a rispondere, Merryn disse: — Non è più nemmeno una leggenda, perché nessuno ricorda questa storia, neanche gli eruditi. La Madre ci ha raccontato che il suo nome significa Testa del Giorno. Comparve qui in mezzo al popolo negli coni più antichi e insegnò molti meravigliosi segreti. Scompariva spesso ma tornava sempre. Alla fine non fece più ritorno e gli invasori devastarono la sua città. Adesso tornerà per l'ultima volta.
— Veramente? Senza magia?
La Cumana guardò Dorcas con occhi che rilucevano come stelle. — Le parole non sono altro che simboli. Merryn preferisce definire la magia come ciò che non esiste... quindi non esiste. Se tu intendi definire magia quello che stiamo per compiere, la magia esiste, mentre la mettiamo in pratica. Nell'antichità, in una terra lontana, esistevano due imperi separati dalle montagne. Uno vestiva i propri soldati di giallo, l'altro di verde. Combatterono per cento generazioni. Ma vedo che l'uomo che è insieme a te conosce questa leggenda.
— Dopo cento generazioni — continuai io, — venne in mezzo a loro un eremita che consigliò l'imperatore dell'esercito giallo di vestire i suoi soldati di verde e viceversa. Ma la battaglia andò avanti senza mutamenti. Nella mia borsa ho un libro intitolato Le meraviglie di Urth e del cielo e riporta questa storia.
— È il più saggio fra i libri scritti dagli uomini — disse la Cumana. — Nonostante siano pochi coloro che riescono a trarre beneficio dalla sua lettura. Figlia, spiega a quest'uomo, che è destinato a diventare un saggio, cosa faremo questa notte.
La giovane strega assentì. — Il tempo esiste in tutta la sua estensione. Le leggende narrate dagli epopti si basano su questo principio. Se il futuro non esistesse già, come potremmo incamminarci incontro a esso? E se il passato non esistesse ancora, come potremmo abbandonarcelo alle spalle? Durante il sonno la mente è accerchiata dal tempo ed è per questo che a volte sentiamo le voci dei nostri morti e ci vengono date notizie sugli avvenimenti che devono ancora avvenire. Quelli che, come la Madre, hanno imparato a mettere la propria mente in quella condizione anche da svegli, vivono circondati dalla propria vita, come l'Abraxas che riduce tutto il tempo a un istante eterno.
Soffiava un leggero vento, quella notte, ma in quel momento notai che era completamente calato. L'aria era immobile e silenziosa, così la voce di Dorcas, per quanto sommessa, sembrò squillare. — È questo che intende fare la donna che tu chiami Cumana? Entrerà in questa condizione mentale e chiederà al morto ciò che desidera conoscere?
— No, non può. La Cumana è molto vecchia, ma la città finì molte ere prima della sua nascita e lei è circondata solo dal suo tempo, che la sua mente conosce per esperienza diretta. Per far rinascere la città ci occorre una mente che abbia vissuto in quell'epoca.
— Ed esiste qualcuno tanto vecchio?
La Cumana scosse la testa. — No. Eppure una mente simile esiste. Guarda là, figlia, sopra le nuvole. Quella stella rossa è detta la Bocca del Pesce, e sul suo unico mondo ancora vivente dimora una mente antica e pronta. Merryn, prendimi una mano e tu, Hildegrin, prendi l'altra. Torturatore, stringi la destra della tua amica ammalata e quella di Hildegrin. La tua amata prenda invece l'altra mano della malata e quella di Merryn... Adesso siamo uniti, gli uomini da una parte e le donne dall'altra.
— E ci conviene fare in fretta — borbottò Hildegrin. — Credo che stia per arrivare un temporale.
— Faremo più in fretta possibile. Adesso mi servono tutte le vostre menti, anche se quella della malata mi sarà di scarso aiuto. Mi sentirete controllare i vostri pensieri. Fate quello che vi dirò.
Lasciando per un istante la mano di Merryn, la vecchia donna (se era una donna) si frugò nel corpetto e ne tolse un'asta le cui estremità scomparivano nella notte come se raggiungessero i confini del mio campo visivo, anche se in realtà non doveva essere più lunga di un piccolo pugnale. Aprì la bocca e io credetti che volesse stringere l'asta fra i denti: invece la ingoiò. Dopo un momento vidi la sua sagoma luminosa, sfumata di cremisi, apparire sotto la pelle molle della gola.
— Chiudete gli occhi... tutti... Qui c'è una donna che non conosco, una donna alta, incatenata... non ha importanza, torturatore, adesso ho capito. Non lasciare la mia mano... Nessuno di voi deve staccarsi.
Nella particolare condizione in cui ero caduto dopo il banchetto di Vodalus, avevo sperimentato che cosa significasse dividere la mente con un altro. Ma quella notte non fu la stessa cosa. La Cumana non mi apparve come l'avevo conosciuta, e nemmeno come una versione ringiovanita di se stessa, né come altro... o per lo meno così mi sembrò. Mi accorsi, piuttosto, che il mio pensiero era avvolto dal suo, come un pesce immerso in una vaschetta nuota in una bolla d'acqua invisibile. Thecla era insieme a me, ma non riuscivo a vederla completamente: era come se fosse in piedi alle mie spalle, e vidi la sua mano posarsi su di me e dopo un momento avvertii il suo respiro sulla guancia.
Poi Thecla svanì, e tutto scomparve con lei. Il mio pensiero fu lanciato nella notte, smarrendosi fra le rovine.
Quando tornai in me ero sdraiato sulle tegole vicino al fuoco. Mi sentivo la bocca piena di saliva e di sangue, segno che dovevo essermi morsicato le labbra e la lingua. Ero troppo debole per reggermi in piedi, ma riuscii a sedermi.
In un primo momento credetti che gli altri se ne fossero andati. Il tetto sotto di me era solido, ma i miei compagni erano diventati incorporei come spettri, ai miei occhi. Hildegrin sembrava un fantasma sdraiato alla mia destra... gli posai una mano sul petto e sentii il suo cuore palpitare come una falena in fuga. Jolenta era la più vaga di tutti, a malapena presente. Il trattamento di bellezza era stato molto più drastico di quanto aveva detto Merryn: sotto la sua pelle scorgevo fili e fasce metalliche, appena visibili. Poi mi guardai le gambe e i piedi e vidi che riuscivo a scorgere l'Artiglio, ardente come una fiamma azzurra, attraverso il cuoio dello stivale. Lo presi, ma le mie dita erano inerti e non riuscii ad estrarlo.
Dorcas pareva addormentata. Le sue labbra non erano sporche di bava e ai miei occhi sembrava più reale di Hildegrin. Merryn giaceva accasciata come una bambola vestita di nero, talmente sottile ed esile che Dorcas, nella sua fragilità, appariva robusta al confronto. Adesso che l'intelligenza non animava più quella maschera d'avorio, mi resi conto che non si trattava che di una pergamena tesa sulle ossa.
Come avevo immaginato, la Cumana non era una donna, pur non essendo uno degli orrori nei quali mi ero imbattuto nei giardini della Casa Assoluta. Qualcosa, liscio come un rettile, si avvolgeva intorno all'asta luminosa. Cercai la testa ma non la trovai, nonostante ogni disegno sul dorso del rettile raffigurasse una faccia e gli occhi di ogni volto fossero sperduti nell'estasi.
Dorcas si svegliò mentre osservavo i miei compagni. — Cos'è successo? — chiese. Anche Hildegrin stava iniziando a muoversi.
— Penso che stiamo vedendo noi stessi da una prospettiva diversa rispetto a quella di un singolo istante.
Lei aprì la bocca ma non udii alcun grido.
Nonostante le nuvole minacciose non avessero portato il vento, nelle strade sotto di noi la polvere turbinava. Non saprei come descriverlo se non come uno stuolo innumerevole di minutissimi insetti, grandi la centesima parte di un moscerino, che dopo essere rimasti nascosti nelle crepe del lastricato fossero stati attratti dal chiaro di luna e si fossero lanciati in un volo nuziale. Non si udiva alcun rumore e i loro movimenti non erano regolari; dopo un po' tuttavia nella massa indifferenziata si crearono sciami che andavano avanti e indietro, sempre più grandi e fitti, e infine piombarono sulle pietre frantumate.
Mi sembrò allora che gli insetti avessero smesso di volare e che strisciassero uno sull'altro cercando di raggiungere il centro dello sciame. — Sono vivi — dissi.
Ma Dorcas sussurrò: — Guarda, sono morti.
Aveva ragione. Gli sciami che un istante prima ardevano di vita mostravano le costole sbiancate; i granelli di polvere, componendosi come frammenti di vetro antico messi insieme dagli studiosi per ricreare una finestra colorata distrutta da millenni, andarono a formare dei teschi che rilucevano verdi nel chiaro di luna. Animali... ailurodonti, massicci animali spelei e sagome furtive alle quali non sapevo dare un nome, tutte ancora meno consistenti di noi che le guardavamo dal tetto, si muovevano in mezzo ai morti.
Uno alla volta i morti risorsero e le bestie scomparvero. In un primo momento lentamente, iniziarono a ricostruire la loro città; le pietre vennero rimesse al loro posto, le travi modellate di cenere vennero inserite nelle intercapedini dei muri restaurati. Quelli che durante la resurrezione erano sembrati cadaveri ambulanti si rinvigorirono con il lavoro e diventarono esseri con le gambe storte che camminavano come i marinai e facevano rotolare pietre immense con la forza delle larghe spalle. La città fu rimessa a nuovo e noi restammo in attesa degli eventi.
Il silenzio della notte venne infranto dal suono dei tamburi; dai loro toni capii che quando avevano suonato l'ultima volta, la città doveva essere circondata dalla foresta, perché riecheggiavano come i suoni fanno solo fra i tronchi dei grandi alberi. Per la strada passò uno sciamano con la testa rasata, nudo e completamente ricoperto da pittografie eseguite in caratteri che non avevo mai visto, ma talmente espressivi che parevano urlare il loro significato.
Dietro di lui venivano i danzatori, cento o più, che volteggiavano al passo, incolonnati tenendo ciascuno la mano sulla testa di chi lo precedeva. I loro volti erano tesi verso l'alto e io mi domandai (cosa che faccio di frequente anche adesso) se per caso non stessero imitando nella danza il serpente dai cento occhi che noi chiamavamo Cumana. Girarono lentamente su e giù per la strada, intorno allo sciamano, quindi tornarono indietro fino a raggiungere l'ingresso della casa sopra la quale ci trovavamo noi. La lastra della porta cadde con uno schianto simile a un tuono e si diffuse un odore di mirra e di rose.
Un uomo uscì per accogliere i danzatori. Se avesse avuto cento braccia o se avesse avuto la testa sotto le mani non mi sarei meravigliato tanto, perché il suo volto mi era noto fin dall'infanzia: era il volto del bronzeo monumento funebre riposto nel mausoleo in cui avevo giocato da bambino. Indossava massicci bracciali d'oro, tempestati di giacinti e di opali, di corniole e di lampeggianti smeraldi. Avanzò a passi misurati fino a raggiungere il centro della processione, con i danzatori ondeggianti intorno a lui. Poi si voltò verso di noi e alzò le braccia. Ci guardò e io compresi che lui solo, fra tutte le centinaia di presenti, ci vedeva davvero.
Quello spettacolo mi aveva talmente affascinato che non mi ero accorto quando Hildegrin aveva abbandonato il tetto. Lo vidi sfrecciare in mezzo alla folla — se un uomo tanto grosso può sfrecciare — e afferrare Apu-Punchau.
Non so come descrivere quello che successe poi. In un certo senso lo si potrebbe paragonare al piccolo dramma consumatosi nella capanna gialla dei Giardini Botanici, ma era molto più strano, se non altro perché allora sapevo che la donna, suo fratello e il selvaggio erano vittime di un incantesimo. Lì invece pareva quasi che fossimo noi, Dorcas, Hildegrin e io, a essere presi da una magia. I danzatori, ne sono certo, non riuscivano a vedere Hildegrin, anche se in un certo senso erano consapevoli della sua presenza e inveivano contro di lui percuotendo l'aria con le clave dai denti di pietra.
Apu-Punchau, al contrario, lo vedeva come aveva visto noi sul tetto e come Isangoma aveva scorto me e Agia. Probabilmente però ne aveva una visione diversa dalla nostra e credo che gli apparisse strano come la Cumana era apparsa strana a me. Hildegrin lo stringeva ma non riusciva a vincerlo; Apu-Punchau lottava e si divincolava senza potersi liberare. Hildegrin sollevò la testa verso di me in cerca d'aiuto.
Non so per quale motivo risposi al suo appello. Non desideravo più servire Vodalus e i suoi scopi. Forse fu a causa dell'effetto residuo dell'alzabo o solo del ricordo di Hildegrin che accompagnava me e Dorcas in barca sul Lago degli Uccelli.
Cercai di allontanare gli uomini dalle gambe storte, ma uno dei loro colpi sferrati nel vuoto mi centrò la testa e mi fece cadere in ginocchio. Quando mi rialzai mi sembrò di non riuscire più a trovare Apu-Punchau in mezzo ai danzatori che saltavano e gridavano. Vidi invece due Hildegrin, uno che lottava contro di me e uno che si batteva contro qualcosa di invisibile. Rabbiosamente scagliai lontano il primo e cercai di andare in aiuto del secondo.
— Severian!
La pioggia che mi batteva sulla faccia mi svegliò... grosse gocce gelate che colpivano come grandine. Il tuono rombava sulle pampas. Per un istante pensai di aver perso la vista, poi il bagliore del fulmine mi mostrò l'erba sferzata dal vento e le pietre in rovina.
— Severian!
Era Dorcas. Cercai di alzarmi e la mia mano toccò fango e stoffa. Presi la stoffa e la liberai... una lunga e sottile striscia di seta bordata di nappe.
— Severian! — Era un urlo di paura.
— Sono qui! — risposi. — Quaggiù! — Un secondo lampo mise in luce l'edificio e la figura frenetica di Dorcas stagliata sul tetto. Perlustrai i muri ciechi fino a trovare la scala. I nostri destrieri erano spariti. Anche le streghe erano sparite, sul tetto. Dorcas era sola, piegata in avanti sul corpo di Jolenta. Alla luce dei lampi vidi il volto morto della cameriera che aveva servito il dottor Talos, Baldanders e me nel caffè di Nessus. Era completamente privo della sua bellezza. Alla fine, rimane solo l'amore, solo questa divinità. Il nostro imperdonabile peccato è proprio quello di riuscire a essere solo ciò che siamo.
Qui mi fermo di nuovo, lettore, dopo averti portato di città in città... dal piccolo villaggio minerario di Saltus fino alla desolata città di pietra il cui nome era perduto da tempo immemorabile nel vortice delle ere. Saltus per me era stata la porta del mondo al di fuori della Città Imperitura. La città di pietra era a sua volta una porta per me, la porta verso le montagne che avevo intravisto oltre i suoi archi diroccati. Da quel momento mi sarei aggirato per le loro gole e i loro balzi, fra i loro occhi ciechi e i loro volti cupi lungo una strada molto lunga.
Qui faccio una sosta. Se non desideri seguirmi oltre, lettore, non ti rimprovero. Non è una strada facile.
APPENDICI
RELAZIONI SOCIALI NEL REGNO
Uno dei compiti più difficili affrontati dal traduttore è sempre quello di esprimere in maniera corretta i problemi riguardanti le caste e le posizioni per renderli comprensibili alla nostra società. Nel caso del Libro del Nuovo Sole, la mancanza di materiale lo rende doppiamente difficoltoso. Ne presentiamo un accenno.
Basandosi sui manoscritti, pare possibile stabilire che la società del Regno consista di sette gruppi fondamentali, uno dei quali pare essere completamente chiuso. Un uomo o una donna diventa esultante solo per nascita e resta tale per tutta la vita. Nonostante esista una scala interna a questa classe, i manoscritti non la riportano. Le donne vengono dette castellane, gli uomini assumono vari onorifici. Al di fuori della città che ho deciso di chiamare Nessus, questa casta cura l'amministrazione degli affari quotidiani. L'ereditarietà del potere contrasta fortemente con lo spirito del Regno e spiega chiaramente la tensione esistente fra esultanti e autarchia, ma è difficile capire come una forma di governo locale potrebbe essere meglio organizzato nelle stesse condizioni: la democrazia si esaurirebbe nel mercanteggiamento e una burocrazia a nomine sarebbe impossibile senza la disponibilità di un nutrito numero di funzionari preparati ma relativamente poveri che ricoprano le cariche. Comunque, la saggezza degli autarchi ritiene che un'intesa completa con la classe dominante rappresenti il malessere peggiore per uno stato. Nei manoscritti, Thecla, Thea e Vodalus sono senza dubbio esultanti.
Gli armigeri sono molto affini agli esultanti, ma un gradino più in basso. Il loro nome indica una classe di guerrieri, che comunque non avrebbero monopolizzato i gradi principali dell'esercito; si potrebbero senz'altro paragonare ai samurai che servivano i daimyo nel Giappone feudale. Lomer, Nicarete, Racho e Valeria sono fra questi.
Gli ottimati sembrano essere dei mercanti più o meno facoltosi. Delle sette classi sono quelli che compaiono meno frequentemente nei manoscritti, anche se alcuni accenni indicano che Dorcas appartenesse in origine a questo gruppo.
Come in tutte le società, la comunalità costituisce il grosso della popolazione. Di solito soddisfatti della propria realtà, ignoranti perché la loro nazione è troppo povera per dare loro un'istruzione, si lamentano dell'arroganza degli esultanti e venerano l'Autarca che, in ultima analisi, costituisce la loro apoteosi. Jolenta, Hildegrin e gli abitanti di Saltus fanno parte di questa classe, alla pari di innumerevoli altri personaggi dei manoscritti.
L'Autarca, che sembra diffidare degli esultanti certamente per ottimi motivi, è circondato dai servitori del trono. Sono i suoi ammiratori e consiglieri nella vita militare e civile. Pare provengano dalla comunalità, ed è da sottolineare l'importanza da essi attribuita all'educazione ricevuta. (Per contro, si veda il disprezzo mostrato da Thecla al riguardo.) Lo stesso Severian e gli altri abitanti della Cittadella, a eccezione di Ultan, si può dire che appartengano a questo gruppo.
I religiosi sono enigmatici quanto il dio che venerano, un dio fondamentalmente solare ma non apollineo. (Dal momento che al Conciliatore è attribuito un Artiglio, è facile fare un'associazione fra l'aquila di Giove e il sole, ma forse è fin troppo banale.) Come il clero della nostra chiesa cattolica, i religiosi si dividono in vari ordini, ma non sembrano sottoposti a un'autorità suprema. Talvolta rammentano l'induismo, nonostante il loro evidente monoteismo.
Le Pellegrine, che nei manoscritti ricoprono un ruolo più importante di qualsiasi altra comunità sacra, sono evidentemente un ordine di sacerdotesse accompagnate da servitori maschi armati, come è naturale per un gruppo nomade come il loro, in quel tempo e in quei luoghi.
Infine, i cacogeni costituiscono, in un modo che riusciamo a malapena a intuire, l'elemento estraneo che, proprio per la sua caratteristica aliena, è più universale ed esiste in quasi tutte le società che conosciamo. Il nome che li designa fa pensare che fossero temuti o per lo meno detestati alla comunalità. La loro presenza alla festa dell'Autarca rivela che sono accettati a corte (probabilmente per necessità). Per quanto la popolazione ai tempi di Severian li consideri un gruppo omogeneo, è probabile che siano in realtà molto differenti fra di loro. Nei manoscritti, la Cumana e Padre Inire sono rappresentanti di questo elemento.
Il titolo onorifico tradotto con il termine sieur dovrebbe essere attribuito solo ai membri delle classi più elevate, ma viene spesso usato a sproposito negli strati più bassi della società. Buonuomo è riferito propriamente al capofamiglia.
MONETE, MISURE E TEMPO
Non è stato possibile stimare con precisione il valore delle monete nominate nell'originale del Libro del Nuovo Sole. In mancanza di certezze, ho usato criso per indicare un pezzo d'oro con impresso il profilo dell'Autarca; nonostante siano abbastanza diversi fra loro per peso e purezza, paiono avere un valore più o meno equivalente.
Ho tradotto con il termine asimi le monete d'argento, ancora più differenti fra loro dei crisii.
Ho chiamato oricalchi le grosse monete di ottone che secondo i manoscritti costituiscono il principale mezzo di scambio fra la gente comune.
Le numerosissime piccole monete d'ottone, bronzo e rame (non provenienti dalla zecca centrale ma coniate dagli arconti secondo le necessità del luogo e destinate a circolare solo nelle singole province) sono designate con il termine aes. Con un aes si compera un uovo; con un oricalco si paga una giornata lavorativa a un operaio comune; con un asimi si acquista una giacca ben fatta, adatta a un ottimate; con un criso una buona cavalcatura.
Occorre tener presente che le misure di lunghezza e di distanza non sono commensurabili. Una lega indica in questo libro una distanza di circa tre miglia; serve per misurare le distanze fra le città e fra le varie parti di una grande città come Nessus.
La spanna indica la distanza fra la punta del pollice e quella dell'indice allargati... una ventina di centimetri. La catena è la lunghezza di una catena di cento anelli, nella quale ogni anello misura una spanna; perciò, più o meno una catena corrisponde a duecento metri.
L'auna rappresenta la lunghezza tradizionale della freccia militare: cinque spanne o circa un metro.
Il passo in questo testo indica un solo passo di circa settantacinque centimetri. Il passo lungo è un passo doppio.
La misura più diffusa, la distanza dal gomito alla punta del dito più lungo (di circa quarantacinque centimetri) è il cubito. Come si può notare, in tutta la traduzione ho preferito termini moderni, comprensibili da tutti i lettori, invece di translitterare nell'alfabeto romano le parole originali.
Nei manoscritti compaiono raramente vocaboli che indicano la durata; talvolta si comprende come nell'autore, e nella sua società, il senso dello scorrere del tempo sia stato smussato dai rapporti con intelligenze che hanno subito o superato il paradosso einsteiniano. Quando tali termini vengono usati, una chiliade indica un periodo di mille anni. Un'era è l'intervallo trascorso fra l'esaurimento di un minerale o di un'altra risorsa esistente in natura (per esempio lo zolfo) e quello seguente. Il mese è il mese lunare (dell'epoca) di ventotto giorni, per cui la settimana corrisponde perfettamente alla nostra: un quarto del mese lunare o sette giorni. Un turno di guardia è la durata del servizio di una sentinella: un decimo della notte, vale a dire più o meno un'ora e un quarto.
Gene Wolfe
FINE